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Seminario
24 maggio 2002, Sala
della partecipazione della Provincia
Coordina Andrea
Chioini
Le culture locali e i rischi della
partecipazione
Renzo Zuccherini:
Come redazione di “Risonanze”, abbiamo cominciato anno scorso a fare
questo scavo sulle
situazioni, le esperienze, i movimenti che lavorano sul locale: e siamo
venuti a contatto attraverso l’Associazione
Amici di Capitini con il Sindaco di Caxias do Soul e il professor
Brambatti, che hanno parlasto dell’esperienza
del bilancio partecipativo. Dopo il Forum sociale
mondiale di Porto Alegre questo interesse si è rafforzato ed è
cresciuto. Questo tema si incontra con l’eredità capitiniana, che
sentiamo viva anche nel lavoro di “Risonanze”,
ed anche con il tentativo che facciamo come rivista di lavorare sulle
culture locali, intese nel senso più aperto e
dinamico che hanno assunto in questo ultimo periodo; in effetti le
culture che esistono nei diversi territori sono
sempre il frutto di un processo dinamico da un lato di sedimentazione di
conoscenze ed esperienze, e dall’altro di
contaminazioni continue, di contatti, talvolta anche di scontri, in ogni
caso di mescolamenti di conoscenze,
pratiche, idee.
E allora questo fatto che le culture locali sono capaci di capire a
fondo le componenti di un territorio e quindi di
valorizzarne le risorse, è diventato un tema che investe un vasto
movimento, un aggregato di movimenti nel mondo,
sul fatto che oggi si possa ripartire dalle conoscenze, dalle
pratiche, dalle forme di produzione, dalle forme di
aggregazione, tipiche di una zona –“tipiche” tra virgolette,
perché sono segnate storicamente, e comunque sono
proprie di una zona – per costruire un progetto di sviluppo che non
sia quello a senso unico delle multinazionali.
Sempre tenendo conto del fatto che anche le culture locali, in ogni
epoca, sono il frutto di una dialettica fra la
spinta del sistema di potere e la spinta più innovativa o autonoma
delle componenti popolari.
Allora nel discutere di partecipazione abbiamo cominciato a riflettere
sul fatto che le culture locali, che sono
l’elemento di risposta ai bisogni locali, nello stesso tempo possono
essere anche un fattore di rischio; per cui
quando si discute di partecipazione, di democrazia partecipata, di spazi
di autogoverno, bisogna anche affrontare
il rischio del riapparire di forme che non ci piacciono. Qualche
volta c’è la tendenza, specialmente nella sinistra,
ad aver paura del “locale”: una paura statalista, molto forte, che
il locale rifluisca in atteggiamenti conservatori,
in forme di chiusura ed esclusione. Io credo che i movimenti in questo
ultimo periodo abbiano recuperato molto
su questo terreno. Quindi il tema della democrazia partecipata si lega
alla cultura locale per alcuni aspetti su cui
noi abbiamo lavorato molto: ad esempio la presa di parola. Noi
proveniamo da una ricerca sui linguaggi, i dialetti,
come forme possibili di dire le cose, e sul fatto che troppo
spesso le persone non potevano dire “le cose” che le
riguardavano perché non possedevano la lingua, il codice, la
parola ufficiale.
Questo implica la presa di parola da parte delle persone concrete, non
dei soggetti astratti.
A questo si lega il discorso dell’ascolto, da parte di chi detiene
parti di potere: tanto più sconosciuto oggi,
quando chi ha il potere tende anzi a togliere la parola e ad impedire ad
altri di parlare. C’è il discorso degli spazi
pubblici, in un mondo nel quale vanno scomparendo e gli spazi privati si
vanno dilatando sempre di più.
Il discorso della gestione del conflitto: è chiaro che in ogni
tentativo di mettere le persone in grado di decidere,
un grado di conflitto emerge sicuramente perché emergono interessi
diversi. E allora le modalità con cui il conflitto
può essere gestito devono essere messe al centro dell’attenzione,
anche come formazione delle persone.
Generalmente, la tendenza autoritaria, che oggi può essere quella
maggioritaria, può essere quella di dire: c’è una
maggioranza, e questa decide; attualmente esiste un sistema di delega
della democrazia per cui una volta che
esiste una maggioranza, questa ha già deciso, non c’è bisogno di
tornarci sopra, se ne riparlerà tra cinque anni.
Io credo invece che occorra lavorare
perr mettere in grado le persone di imparare a gestire il
conflitto insieme
agli altri e possibilmente affrontarlo in maniera nonviolenta e non
autoritaria. Un altro elemento critico è che in
qualsiasi forma di democrazia partecipata in cui tutti possano aver
voce, occorre tener conto
anche di quelli che
non riescono ad aver voce, perché c’è sempre la possibilità che una
parte della popolazione non riesca ad avere
gli strumenti per intervenire.
Ora, il dato più originale dell’esperienza che ci è stata portata da
Caxias do Soul è quella del creare spazi
preventivi di decisione, su temi concreti; questo è uno scatto per un
passaggio verso una negoziazione generale,
in cui le persone decidono: possono decidere sul marciapiedi oppure
invece sulle scelte ambientali che riguardano
una vallata o un territorio, ma il passaggio decisivo è l’apertura
di spazi preventivi di decisione.
Su questo noi vogliamo riflettere, per rilanciare un dibattito che si è
molto allargato specialmente dopo Porto
Alegre, ma che stenta ancora ad avere una fisionomia adatta alle nostre
realtà.
Il difensore civico
Piero Fabbri: Una
definizione di bilancio partecipativo è che si arrivi al bilancio, che
è un atto pubblico,
amministrativo, e fare in modo che la partecipazione sia sostanziale e non formale; darei per
scontato che tutte
le amministrazioni vorrebbero la partecipazione, o almeno lo enunciano:
il problema è in che modo realizzare la
partecipazione sostanziale. Il mio contributo comunque vuole rimanere
nell’ambito della difesa civica; e penso
che l’Umbria rappresenta bene la situazione italiana, per cui parlo
della difesa civica in Umbria. Parto dal fatto
che in Umbria i difensori civici sono presenti solo in una decina di
Comuni e nella Provincia di Terni: quindi la
Provincia di Perugia, la Regione dell’Umbria, i due comuni più grandi
dell’Umbria, Perugia e Terni, non hanno
difensore civico. A livello comunale, abbiamo tutta la gradazione delle
possibilità: dal difensore non visto, come
quello di Bevagna, che è al terzo mandato ma assolutamente non lo sa
nessuno che esista un difensore civico,
a cominciare dall’assistente sociale; al difensore civico che potrebbe
essere il massimo della democrazia diretta,
come Gubbio, dove era stato eletto direttamente dal corpo elettorale (e
in Italia ci sono solo tre comuni che
hanno fatto questa scelta): il comune di Gubbio, però, nella scorsa
legislatura ha deciso di fare macchina indietro
ed ha cambiato lo statuto per cui il difensore civico sarebbe tornato ad
essere eletto dal consiglio comunale.
L’allora difensore civico Maria Pia Castellani su questa questione si
dimise; come rete nazionale dei difensori
civici facemmo un’iniziativa a Gubbio per sottolineare questo smacco
per la cittadinanza: noi non facciamo una
questione sine qua non quella dell’elezione diretta,
però dove ci si è arrivati non si capisce perché si dovrebbe
tornare indietro; tanto è vero che la nuova amministrazione, che ha
avuto la maggioranza, si è presentata agli
elettori avendo nel programma il ripristino dell’elezione diretta del
difensore civico.
Chioini: Come ha
reagito la cittadinanza di Gubbio a questo ammutolimento di quella voce
della cittadinanza?
Fabbri: Posso
darti due elementi: uno, che l’assemblea pubblica è stata enormemente
partecipata, sono usciti
manifesti, se n’era parlato alla radio, insomma c’è stato dibattito
cittadino; due, sono tornato a Gubbio e molti
sostengono che questo argomento non è stato estraneo al fatto che la
vecchia amministrazione non è stata
riconfermata, perché comunque, nei tre anni e mezzo in cui ha operato,
il difensore civico a Gubbio era diventato
davvero un punto di riferimento per la cittadinanza. La gamma continua
con un’altra tipicità: la Provincia di Terni
ha eletto il difensore civico, Alessandra De Bartolo, e poi però si sta
convenzionando con una dozzina di piccoli
comuni per assicurare almeno formalmente la presenza del difensore
civico: noi, pur riconoscendo questa
sensibilità, non la riteniamo la soluzione migliore perché il
difensore civico non può essere un orpello, una funzione
aleatoria: è chiaro che se esiste un difensore civico provinciale
sarà di fatto totalmente assorbito dalle questioni
attinenti alla Provincia, quindi come può
garantire la sua presenza in questi dodici piccoli comuni? Il
difensore
civico ha senso perché dovrebbe garantire ai cittadini di accedere con
una certezza almeno settimanale dove il
comune è molto piccolo, e tutti i giorni dove il comune è grande, con
una disponibilità, una visibilità, una presenza
e una possibilità di agire che deve essere continuativa; se
questo non c’è, il difensore civico diventa un lustrino,
un fiore all’occhiello.
Voglio dire infine che io non vedo il difensore civico come un reale
strumento di partecipazione, quanto uno
strumento di garanzia.
Ecologia della partecipazione
Karl-Ludwig Schibel,
Coordinatore della Fiera delle utopie concrete a Città di Castello: Che
cosa sia il bilancio
partecipativo io non ho ancora ben capito, e non ho nemmeno molta fretta
di capire, perché la mia impressione è
che non mancano le possibilità di partecipazione, ma quello che manca
è la partecipazione sostanziale, e anche
questo non per difetti caratteriali di quelli che non partecipano, ma
per buone ragioni strutturali. Io ho vissuto
ormai da trent’anni il problema dall’altro lato, nel senso che vivo
in una comunità in cui la vita quotidiana richiede
di poter intervenire su tutte le scelte rilevanti: ognuno di noi ha la
stessa voce perché un’ora della mia vita è un’ora
della tua vita, quindi richiede giustificazione ogni tipo di divisione
del lavoro che abbia un versante gerarchico.
All’inizio del dibattito sulla partecipazione, nei primi anni settanta
il mio maestro intellettuale era Murray Bookchin,
anarchico americano che proponeva municipalismo come questo che in
questi giorni leggiamo con Alberto
Magnaghi (la “Carta del nuovo Municipio”, pubblicata su Carta
Almanacco del gennaio 2002; di Alberto
Magnaghi si veda anche il volume Il progetto
locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000; N.d.R.); e
Daniel
Cohn-Bendit che all’epoca era leader anarchico in Germania e oggi fa l’eurodeputato
verde, diceva: “Ma sai, a
me piacerebbe tanto se non dovessi occuparmi di tutto quello che è la
mia vita quotidiana; se per esempio” e
l’esempio mi sembra indicativo “potessi aprire il rubinetto e viene
l’acqua di buona qualità, sapendo da dove viene,
dove va, come sarebbe bello”: una piccola provocazione per
Bookchin. Dietro c’era l’idea, un po’ megalomane,
che abbiamo tutte le possibilità di intervenire sulla nostra vita,
basta solo farlo veramente, si disse negli anni
Sessanta. Però la mia esperienza è stata negli ultimi decenni che è
più un problema di partecipare che non di creare
le occasioni di partecipazione. Faccio un altro esempio: in
Israele, nel ’99, nei kibbutzim dove avevano grandi
problemi di partecipazione perché la gente non va più alle assemblee,
hanno fatto un collegamento televisivo, per
cui si poteva seguire l’assemblea dalla propria cucina. Quindi la tesi
sarebbe che se è vero che i diritti formali di
partecipazione sono abbastanza larghi, è anche vero che l’uso
concreto di questi diritti non impedisce di
scoraggiarci in ogni modo.
Il che non dovrebbe stupire; Norberto
Bobbio ha fatto una osservazione molto semplice che però mi pare
importante per il nostro tema: il flusso del potere non può che avere
due direzioni, o dall’alto in basso o dal basso
in alto; tertium non datur; la partecipazione come elemento
centrale di ogni democratizzazione rafforza il flusso
dal basso in alto e questo strutturalmente mette la partecipazione in
opposizione al potere dall’alto in basso.
Per questo, un buon politico, un buon proprietario di azienda, un
esperto (più che altro forse è il nostro discorso
qui), non può avere un interesse per il flusso del potere dal basso in
alto, perché il suo potere diminuisce; e questo
a prescindere da qualsiasi legittimazione di questo potere come quello
democratico rappresentativo.
Quindi la tendenza delle istituzioni di rispettare i diritti di
partecipazione e di ostacolare per quanto possibile il flusso
del potere dal basso in alto, è del tutto “naturale”. Adesso
io non ho il tempo di fare degli esempi, ma penso alla
partecipazione al piano regolatore, a tutte le possibilità che ci sono
e come poi vengono usate e il modo in cui
vengono guardate dalle istituzioni locali. Qui si parla di nuovi
movimenti sociali che
recenti eventi stanno
incoraggiando; dal mio punto di vista si tratta innanzitutto di
prendersi i diritti di partecipazione e non di aspettare
che te li diano: se te li danno hanno in gran parte un senso ideologico
e se tu veramente li usi finisci nei guai.
Concludo dicendo che la partecipazione è una cosa collettiva e noi come
ambientalisti dobbiamo essere a favore
del rafforzamento di questi diritti, perché non è detto che la
protezione dell’ambiente e la partecipazione non siano
due cose che seguano automaticamente una dall’altra. Se in un primo
momento gli interessi di una parte consistente
della scena politica sono a favore della non partecipazione, è meglio
andare a vedere cosa significa scegliere delle
soluzioni che funzionano senza la partecipazione dei soggetti. Le
soluzioni dure, che non richiedono la partecipazione
dei soggetti, sono anche quelle più costose; le soluzioni dolci,
ecologiche, a basso impatto ambientale, sono anche le
soluzioni che richiedono la partecipazione dei soggetti. Io in questo
momento sono moderatamente ottimista.
L’egoismo dei due terzi
Andrea Chioini:
Dobbiamo cominciare a riflettere sulla condizione di consistenti parti
della cittadinanza,
per cui è meglio farsi i fatti propri perché partecipare o non
partecipare non cambia nulla; in molti pensano
che le cose da cambiare con un proprio intervento personale non
sono le cose in generale, ma le cose
individuali. Secondo me la deriva che stiamo vivendo ha anche questo
segno.
Cito un colloquio che ho avuto ieri con il presidente della Comunità
del Parco del Lago Trasimeno il quale
mi diceva che sta tentando di ripristinare delle antiche discese
al lago, e che la popolazione locale dovrà
apprezzare questa iniziativa; io gli ho risposto: “Ma probabilmente
chi vive al Trasimeno vuole ammirare il lago
dalla veranda di una casetta che si è riuscita a fare, magari
cominciando a costruirla come annesso al rustico
e poi trasformandola in una casetta andando a riempire tutti quei begli
spazi che stanno tra una casa e l’altra”.
Io sono convinto che esista questa componente egoistica, in quanto c’è
una ricchezza diffusa, le possibilità di
spesa e di investimento non sono
più di una minoranza, ma dei due terzi della popolazione a fronte di un
terzo
che invece tende al rischio di marginalità.
Sostenibilità urbana e bilancio
partecipativo
Maurizio Gubbiotti,
della Segreteria nazionale di Legambiente: Penso che nei confronti del
bilancio partecipativo
ci sia da una parte un bisogno mediatico di individuare in termini di
significato alcune semplificazioni che passino con
facilità, e quindi avere un termine che suona bene, funziona bene, e
che iniziamo ad usarlo tutti; contemporaneamente,
come diceva adesso Schibel, c’è poca conoscenza, e soprattutto poco
approfondimento di quello strumento.
Certo, un conto è un bilancio partecipativo che deve decidere se fare
le fogne oppure una strada, in una situazione
in cui tutto questo manca, e un conto è il bilancio partecipativo nella
parte che sta bene, che non ha problemi, e
che quindi pensa più agli interessi individuali e meno alle discese al
lago, che dal punto di vista sociale rappresentano
certamente anche rapporto sociali diversi. Allora, da una parte
bisogna capire di quale luogo stiamo parlando
quando parliamo di partecipazione; legato a questo, c’è anche una
possibilità, ed è legata al modello di Porto Alegre.
Porto Alegre, e l’edizione di quest’anno ancora di più, ha un
valore in sé perché si fa, perché esiste, perché è un
momento in cui una grande partecipazione si lega, con numeri enormi, al
fatto che per un po’ di giorni si accendono
i riflettori su temi fondamentali, dando la parola a chi normalmente non
ce l’ha. Prima Zuccherini sottolineava temi come
la presa di parola, l’ascoltare, che secondo me sono un valore
che ha Porto Alegre. Ne sorge la necessità di pensare
ad altri Porto Alegre, cioè ad appuntamenti che girino gli altri
continenti, perché nonostante Porto Alegre abbia avuto
una grandissima partecipazione, rimane come una forte presenza in un
continente, con la difficoltà che continenti più
lontani siano meno rappresentati. Questo aspetto molto positivo
dell’appuntamento, unito al fatto che l’appuntamento
non è un contro-vertice, ma è una cosa di approfondimento e di
condivisione, la stessa positività la assume il bilancio
partecipativo per quanto riguarda quei luoghi e quelle discussioni.
Quello è un appuntamento molto importante sui
processi di globalizzazione, per gli aspetti negativi e le opportunità
che i processi di globalizzazione portano: gli aspetti
negativi che sono i numeri del tipo “un miliardo e trecento milioni di
persone che vivono con meno di un dollaro al giorno”
, ma anche le opportunità dal punto di vista della circolarità dell’informazione,
dalla stessa facilità ad esempio che
avvenga un appuntamento come quello, o dalla possibilità che il
bilancio partecipativo possa diventare uno strumento
utile per il mondo, per le varie comunità che in ogni luogo pensano a
delle formule di bilancio partecipativo.
Per paesi come il nostro, i rischi sono legati all’intendere il
bilancio partecipativo come fiore all’occhiello per le
amministrazioni; è un po’ la storia dell’Agenda 21; dopo dieci da
Rio del ‘92, il protocollo di Kioto, l’Agenda 21 è stato
uno dei processi di partecipazione finalizzati alla sostenibilità
per le città: bene, l’Agenda 21 per il nostro paese, dove si è
fatta, è il fiore all’occhiello, la copertura, messa a
posteriori; la certificazione ambientale non è stata davvero un
processo
finalizzato alla sostenibilità, perché da noi il discorso non è
se fare le fogne o no, ma siamo al livello di capire attraverso
cosa passa la sostenibilità, cioè una diversa politica della mobilità
basata sul mezzo pubblico ecc.: ebbene, questo è lo
stesso rischio che corriamo con il bilancio partecipativo. Noi rischiamo
cioè di avere assessori al bilancio partecipativo,
con dei fondi per il bilancio partecipativo. Ma se questo non viene
inteso come la messa in discussione del modello di
sviluppo fino ad oggi attuato, anche nelle città, è evidente che dal
punto di vista della sostenibilità la città continua a
camminare con una mobilità basata sulla gomma e il traffico privato,
con la raccolta differenziata che si limita a qualche
barattolo, con ottomila comuni in deroga per la potabilità dell’acqua,
ecc., e poi però c’è la certificazione di sostenibilità
perché c’è un processo in atto. E’ questo scollamento il rischio
che c’è dietro anche al bilancio partecipativo.
Sono d’accordo anche con la cosa che diceva Piero Fabbri, che è
diverso l’aspetto del difensore civico, elemento
di garanzia rispetto ai diritti dei cittadini, dalla partecipazione, che
oggi nei nostri paesi non può che essere una
partecipazione molto più complessa; il problema è di ripensare davvero
il bilancio della città, ripensare quali sono le
priorità legate alla sostenibilità della città. E questo non può
essere fatto mentre c’è un bilancio del comune che viaggia
per i suoi canali, e poi c’è una fetta di bilancio partecipativo.
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L’autoeducazione orientata all’azione
Federico Sotgiu: Io sono qui in
rappresentanza di Attac; siccome però presumo che il pubblico presente
conosca in linea di massima le attività di questa associazione e tenuto
conto dei tempi stretti che Andrea ci consente, passo subito ad alcuni
fatti concreti relativi al tema del bilancio partecipativo. Una cosa sola
però volevo dire: lo slogan su cui Attac fonda la sua attività è quello
di creare un movimento di autoeducazione popolare orientata all’azione.
Il fatto che sia orientata all’azione è molto importante; prima con
Zuccherini dicevamo che di questo bilancio partecipativo se ne parla tanto
però poi una costruzione concreta non viene fuori. Ecco, su tutte le cose
Attac vuole arrivare a costruire delle proposte concrete, presentabili,
fattibili o quantomeno da poter essere messe in discussione, e arrivarci
tramite il metodo della autoeducazione popolare, nel senso di coinvolgere
nella ricerca sulle problematiche connesse ai diversi temi che tratta il
massimo della gente disponibile a collaborare e a costruire. E un esempio
di questo è la tassa Tobin, per cui Attac ha immediatamente promosso la
presentazione di un disegno di legge popolare che introduca la tassa Tobin,
e il 19 luglio presenteremo a Roma le firme necessario perché questo atto
si avvii nella sua procedura per essere discusso in Parlamento. Questa è
stata certo l’attività prioritaria a cui ci siamo dedicati in questo
periodo, anche se è da pochissimo che abbiamo costituito un nucleo di
Attac a Perugia; ma ci siamo già posti altri obiettivi, per costruire
altre proposte su tre temi fondamentali: il problema dell’acqua, che
oggi, che è comunque mondiale, diventa un problema di risorse nazionali;
il problema delle banche armate, cioè della partecipazione di molte
banche ad investimenti nell’industria degli armamenti; e soprattutto il
discorso del bilancio partecipativo, che, secondo il nostro orientamento,
è uno degli strumenti che può di più avvicinare i cittadini alla
politica. Sappiamo dell’allontanamento dalla politica, della crisi dei
partiti, del sistema elettorale, delle leggi di riforma del governo
locale, con la consultazione incentrata sul sindaco, che hanno sicuramente
allontanato la popolazione dalla politica, ma la distanza che i cittadini
hanno preso dalla politica deriva da altro, è
cioè l’effetto della rivoluzione liberista che ha di fatto
infranto i legami sociali esistenti sul territorio, i luoghi di incontro e
di costruzione di un comune sentire: fabbrica, sindacato, partito, e che
hanno generato un individualismo sfrenato quale quello cui accennava
Andrea, disposto anche a passare da fasi poco legittime per arrivare alla
realizzazione di un interesse individuale, senza tenere alcun conto di
quello sociale. Questo ha istigato una forza competitiva nei rapporti
interpersonali, e quindi una profonda insicurezza. Ed è inutile, a mio
avviso, illudersi sulla possibilità di ricostruire meccanismi
organizzativi dell’agire politico che sono ormai patrimonio solo della
storia passata. Invece matura sempre più la convinzione, nell’ambito
dei movimenti globali, la cui nascita rappresenta forse il fenomeno più
rilevante di questo nuovo secolo, che sia necessario ripartire dalla
dimensione locale per creare le possibilità di costruire campagne globali
di rinnovamento contestuale delle politiche di sviluppo. E quindi il ruolo
della partecipazione dei cittadini alla costruzione delle scelte
territoriali è funzionale non solo a garantire una effettiva presenza del
cittadino sulle scelte del suo territorio, ma anche un processo che
costruisca degli strumenti per il rinnovamento dell’azione su fronti più
ampi. E cioè, il momento della partecipazione a livello del territorio
trova nelle coscienze le condizioni perché queste si dimostrino
disponibili ad affrontare problemi più ampi e di natura molto più
rilevante. Un ultimo minuto lo vorrei dedicare al discorso del significato
di “partecipazione”, e dei rischi della partecipazione intesa come
fenomeno esclusivamente burocratico-amministrativo, qualcosa che si deve
fare per attivare un discorso a cui non crede forse né chi lo promuove né
chi è chiamato a partecipare. E per contro, la partecipazione rischia
spesso di diventare una strategia per costruire consenso affidandosi
esclusivamente a un rapporto con i poteri forti. La partecipazione va
costruita in un modo completamente diverso, quello che in qualche modo
hanno intrapreso i paesi del terzo mondo, che hanno una serie di
problematiche che hanno fatto balenare nell’ambito del Forum mondiale di
Porto Alegre, che ha comunicato le strategie messe in atto dal Comune di
Porto Alegre. Naturalmente non può essere un’esperienza da copiare così
com’è, è un’esperienza su cui bisogna lavorare, e avrei anche tutta
una serie di ipotesi su come lavorare che eventualmente affronterò se ne
avremo il tempo.
Partecipazione ed apparato
Andrea Chioini: E’ qui con noi
Wladimiro Boccali, assessore, che si trova tra una serie di prospettive
per servizi molto sentiti dalla città, con delle istanze che possono
essere di conservazione o di innovazione, e contemporaneamente nelle
strettoie di un bilancio che ha dei vincoli e delle rigidità, e un
apparato amministrativo, costituito da persone inamovibili, che, io
ritengo, pesa più di quello che non si riesca a immaginare anche sulle
scelte che politicamente una giunta attenta, un assessore che è stato a
Porto Alegre e che è cresciuto nel sociale, possa gestire. Una domanda:
uno dei vanti del Comune di Perugia, in occasione dell’approvazione del
bilancio, è di aver fatto diciotto assemblee pubbliche; queste assemblee
quanto prefigurano un bilancio partecipativo? O era tutto bello e
confezionato?
Dalla partecipazione formale alla partecipazione
sostanziale
Wladimiro Boccali, assessore alla
coesione sociale del Comune di Perugia: Il Comune di Perugia è stato a
Porto Alegre fin dalla prima edizione, al Forum delle autorità locali per
l’inclusione sociale; c’è stato insieme a due o tre comuni italiani e
alla Provincia di Genova; l’abbiamo fatto quando non era
straordinariamente di moda, come per la seconda edizione: anno scorso la
delegazione italiana a quel Forum era seconda a quella brasiliana; e
quando ho presentato in giunta queste esperienze partecipative, il Sindaco
di Perugia mi ha detto: “Ma io già lo faccio il bilancio
partecipativo”. Voi conoscete il Sindaco di Perugia, che credo conosca
dal cittadino nel paese più distante dal centro storico, fino al
presidente degli industriali, e parla con tutt’e due: una democrazia
partecipata formale. Secondo me, per rispondere alla tua domanda, quella
partecipazione si è esaurita: non è una democrazia partecipativa
sostanziale la partecipazione al bilancio che facciamo. Io credo che noi
stiamo tentando di costruire decisioni con un livello partecipativo molto
ampio; il meccanismo è questo: il bilancio si discute in giunta, poi va
alla partecipazione per trenta giorni, poi si va nelle circoscrizioni,
dove c’è l’obbligo del parere, poi va alla Commissione consiliare e
poi arriva in Consiglio comunale. Dunque il bilancio in questo mese può
essere stravolto, e può essere ulteriormente stravolto dal Consiglio. Il
Sindaco Locchi ha immesso un ulteriore elemento di partecipazione, perché
nel bilancio approvato dalla Giunta un miliardo e mezzo circa viene
lasciato libero, perché nella partecipazione vengono fatte le scelte
sull’investimento. Però la partecipazione sostanziale non credo sia
stata raggiunta, perché se io vado nei quartieri più popolosi della città,
a discutere del bilancio, e discuto con quindici persone su
venticinquemila abitanti, quanto è rappresentativa quell’assemblea?
Quando abbiamo proposto questo metodo, prima di arrivare alle assemblee
partecipative c’era un percorso di analisi e studio del bilancio nelle
sedi di partito: io quest’anno sono stato chiamato in una sola sezione
del mio partito, prima dell’assemblea partecipativa; quando abbiamo
fatto l’assemblea partecipativa, oltre alle persone della sezione ce ne
saranno state cinque, dieci in più. Quindi io credo che noi dovremo
misurarci con la sfida di innovare i processi partecipativi nella nostra
città, e non metterci qualche etichetta sulla giacca, come l’assessore
al bilancio partecipativo. L’esperienza brasiliana noi la possiamo
studiare, ma non copiare, perché quell’esperienza di bilancio
partecipativo nel nostro schema politico-istituzionale non funzionerebbe.
Voglio fare un esempio: adesso andiamo a mettere l’ultima parola su una
delle decisioni più contrastate di questo periodo, cioè la collocazione
di un centro sociale in un quartiere. Lì c’è stata la partecipazione:
tutte le associazioni contrarie; la circoscrizione inizialmente contraria;
assemblee, riunioni; minacce di occupazione; un giornalino che arriva a
cinquemila famiglie del quartiere con attacchi pesanti; dopo un anno e
mezzo di trattativa, andiamo a mettere la parola fine, avendo ottenuto un
armistizio, spero, su un problema che si trascina da quindici anni. Io
penso che ci dobbiamo misurare con la sfida della partecipazione
all’interno di un sistema istituzionale che non possiamo pensare che non
esiste; ma ancor di più, io penso che dovremmo individuare città per
città forme di partecipazione sostanziale. Il 25 giugno, all’interno
delle celebrazioni della festa del XX Giugno, faremo un convegno dal
titolo: “Dai Centri di orientamento sociale al bilancio
partecipativo”: un titolo che, come diceva prima Renzo, possa ancorare
fortemente alla tradizione umbra questa discussione sulla partecipazione
sostanziale. Voglio poi sentire Zupi, perché non possiamo parlare di
partecipazione, e non pensare che in Italia ci sono soggetti della
rappresentanza sociale come il sindacato; e discutere di quanto tali
soggetti sono realmente rappresentativi. Il sindacato lo ha dimostrato,
spero che lo abbiano capito tutti; ma questo vale per tanti altri. C’è
una domanda che una giornalista ha fatto al Sindaco di Perugia: “In città
nascono comitati e comitatini; lei è preoccupato?”. Il sindaco ha
detto: “No, a noi non preoccupa nulla; mi preoccupa un po’ più il
comitato che dietro ha qualche esponente politico, o qualche egoismo, ma
con gli altri discuto con tutti”. Allora io sono per rimettersi in
gioco, ma tutti, non soltanto l’amministrazione comunale che magari
individua un consigliere che si occupa di bilancio partecipativo,
individua l’uno o il due per cento del bilancio e lo mette in
partecipazione: questo il Comune già lo fa. Credo che invece dovranno
rimettersi in gioco tutti, dall’istituzione ai soggetti della
rappresentanza sociale, e chiederci: “Ma la città, nel suo complesso,
partecipa? La partecipazione al piano regolatore è stata reale? O è
stata solo dei soggetti che sono (legittimamente) interessati alla
organizzazione e alla pianificazione del territorio? Noi stiamo tentando,
con molta umiltà, di raccogliere questa sfida, lo faremo probabilmente
tentando di cambiare, proprio sul bilancio, il processo partecipativo,
tentando di farlo trenta giorni prima dell’approvazione in Giunta e
trenta giorni dopo: già questo potrebbe essere un elemento di
innovazione. Ma soprattutto dobbiamo fare in modo che a Ponte San Giovanni
o a Madonna Alta non ci vengano otto o nove persone. Ora le occasioni di
discussione non mancano; io sono
per fare una discussione che sia per così dire al di fuori dei titoli di
quarta di copertina, ma che scenda nel merito delle tematiche e che sia
soprattutto ancorata a Perugia, e chi discute di questi temi si ricordi
quello che fa dopo che ha finito di discutere di questo argomento, perché
altrimenti anch’io potrei venire qui e raccontarne tante, dopodiché
faccio l’amministratore che deve decidere, e deve decidere come
allargare la sfera dei servizi sociali per esempio, e non lo posso fare
soltanto dicendolo. E per chi fa politica come me, le cose contro
l’opinione dei cittadini non vanno fatte. Però c’è anche una storia,
ci sono i Centri di orientamento sociale, ci sono le circoscrizioni,
c’è la concertazione: ci sono pratiche che sono state
sperimentate, che probabilmente bisogna ravvivare, perché sono nate in un
altro clima sociale, non ci sono più i partiti organizzati come prima;
però insomma, non uscendo dalle nostre tradizioni e dalla nostra storia,
non credo che a Perugia non ci sia possibilità di partecipazione nelle
decisioni complessive della città… Del resto, troppi luoghi prendono
decisioni più importanti di quelle della Giunta comunale e non sappiamo
neanche chi ci sta dentro e chi le prende.
Il piacere del dialogo e la coscienza dal basso
Luciano Cancelloni,
dell’Associazione degli amici di Aldo Capitini: Direi che il pessimismo
di Boccali è ben avvalorato, perché non è nemmeno solo una questione di
proporre da parte dell’amministrazione certe forme di partecipazione, ma
è proprio non c’è più il senso di appartenenza; Capitini la chiamava
“omnicrazia”, cioè il potere di tutti attraverso gli strumenti di
controllo dal basso. Ecco, i Cos (Centri di orientamento sociale) nascono
nel ’44, quando, usciti dal fascismo, la gente sentiva il bisogno di
riunirsi, di parlare, di confrontarsi e anche di riappropriarsi di un
ruolo di cittadinanza. I Cos nascono con questo specifico scopo: parlare e
ascoltare; erano riunioni che non avevano un canovaccio, un programma, ma
erano proprio un dialogo, per creare questa coscienza iniziale di
apertura. Erano aperte un po’ a tutti, non si chiedevano tessere, e
partecipavano tutti ma erano invitati in primis gli amministratori, per
cercare un confronto con le istituzioni. Purtroppo, dopo i primi tempi di
una certa euforia, vennero a mancare i partiti, in particolare della
sinistra, che piano piano cominciarono a creare dei problemi, perché
pensavano che i Cos volessero sostituirsi ai partiti, e invece li volevano
integrare, volevano essere l’anima attiva delle esigenze della
popolazione; i partiti hanno sbagliato
in questo. E venendo a mancare l’elemento di contrapposizione, di
confronto e di dialogo, i Cos nel ’48 cessarono la loro funzione. Certo
che si parlava di utopia capitiniana; e invece vedo che anche le utopie
sono reali, perché quello che scaturisce da Porto Alegre è il segnale
che qualcosa si può fare, laddove c’è la volontà di fare: certo,
forse là la situazione geografica e politica aiuta molto nel creare
queste forme associative, però qui viene fuori molto forte che se non si
crea una coscienza dal basso, quello che Capitini chiamava l’aggiunta,
la persuasione di assumere certe posizioni, di partecipare alla vita
pubblica, a determinare le scelte, rimane solo il parlare per riempirsi la
bocca. Io credo che la cosa essenziale sia riscoprire il valore del
dialogo. Se non si riscopre il senso, il piacere della socialità, il
senso della partecipazione, credo che questo sia destinato alle calende
greche. Noi come Associazione Amici di Capitini nasciamo proprio con lo
scopo di diffondere il pensiero capitiniano; a livello di prassi non
abbiamo attività concrete, non facciamo se non convegni, congressi,
stimoliamo delle discussioni; però con piacere troviamo molto interesse.
Per questo credo che la cosa essenziale per noi che siamo qui sia quello
di ripartire dal basso, di creare una coscienza partecipativa, perché
altrimenti tutto finisce soltanto in piccoli circoli come questo. Ciò che
chiediamo, anche da questa galassia di associazionismo e di movimenti, è
che è giunto il momento di mettersi intorno a un tavolo e ricostituire
qualcosa dal basso: noi siamo disponibili a questo lavoro e ricominciare
dal basso, a dialogare, a parlare.
Andrea Chioini: Il piacere di
parlare: anche Schibel ricordava le assemblee nei kibbutz riprese via
cavo; secondo te le discussioni via internet sono una deriva voyeuristica,
e soprattutto interrompono la fisicità? Personalmente già so che chiuderò
questa riunione con grande soddisfazione e grande contentezza perché
l’esperienza che sta circolando adesso, portata dalle persone che la
incarnano, è un livello sul quale, nel ragionare di politica e di società,
ci siamo dimenticati. Secondo me non bisogna avere timore di questi
concetti, di questa dimensione piacevole ben diversa dal piacere
iperconsumista: il pathos dello scambio tra uguali e tra esperienze.
Rappresentanza, negoziazione e corpi intermedi
Amedeo Zupi: Io chiedo scusa in
anticipo, perché in pochi minuti si dicono delle cose molto schematiche,
quindi spero che poi abbiamo modo di approfondire i temi. Una prima cosa
sul bilancio partecipativo, io penso che, fermo restando di lasciare il
termine che ormai ha fatto presa e non vale la pena cambiarlo, col nostro
ordinamento istituzionale e amministrativo bisognerebbe discutere invece
del documento di programmazione economica che gli enti elaborano prima di
fare il bilancio, e dove ci sono le effettive scelte in materia di
investimenti e di spesa, e si dice per ogni singola voce quante risorse si
intendono destinare. Il bilancio invece, per nostra sfortuna, è un
oggetto complicatissimo che la stragrande maggioranza dei cittadini non
riesce a capire. Io penso che sia invece il caso di chiedere che ci sia un
canale di partecipazione e di discussione sul documento di programmazione
economica. Non mi convince molto il fatto di fare una partecipazione su
una parte del bilancio; l’idea di una parte del bilancio riservata alla
democrazia non mi convince: è tutto il bilancio che va riservato. Detto
questo, per me partecipare vuol dire negoziare; però qui abbiamo una
storia di partecipazione, intesa nel senso che ognuno dice la sua, e le
istituzioni decidono. Per me invece vuol dire “discutiamo delle cose e
vediamo se riusciamo ad ottenere una decisione comune su come utilizzare
delle risorse”, e quella decisione comune però poi vincola. Non si fa
una bella sbornia di assemblee e discussioni, ognuno alza la mano e dice
la sua, tutte le opinioni possibili, e poi c’è qualcuno deputato a
decidere a prescindere. Questo certo si può anche fare, ma non fa fare un
passo in avanti al processo di costruzione democratica delle decisioni. E
se noi pensiamo alla partecipazione come momento di negoziato, si pone
subito un problema: il mito dell’agorà, o a Perugia della Piazza
Grande, dove si riuniva tutto il popolo in Assemblea Grande e generale, è
finito in una riesumazione che dalla Piazza è passata alla Sala dei
Notari, poi alla Sala della Vaccara e così via. Non penso che sia questa
la strada da seguire. L’idea che si possa risolvere il problema di una
partecipazione intesa come negoziato reale, senza porsi il problema della
rappresentanza, vuol dire semplicemente non farla, o far finta di farla.
Il problema della rappresentanza pone il problema dei corpi intermedi:
c’è da battere l’idea che l’atto elettorale risolva definitivamente
i problemi della democrazia, non sia esaustivo del processo democratico,
ma serva qualcosa di più. Ebbene, a mio parere per far questo sono
necessari i corpi intermedi, cioè le forme organizzate di rappresentanza
sociale; ma quando dico “sociale” non mi riferisco solo alle forze
economiche (imprenditori o lavoratori): rappresentanza sociale può essere
il volontariato, l’associazionismo, qualsiasi forma di protagonismo
sociale; io penso che l’idea che si possa cercare di costruire un
tessuto di tavoli a cui una serie di soggetti che rappresentano aspetti
della società, siedono e discutono: è il negoziato. Io capisco che su
questo si possano avere perplessità e critiche, però noi abbiamo
un’esperienza: l’idea della concertazione, che è stato un pezzo
consistente della strategia del sindacato negli ultimi anni, era in fondo
questa; noi non abbiamo mai pensato alla concertazione come a un fatto
esclusivamente nazionale, ma come un processo che riguardasse qualsiasi
livello di decisione istituzionale. Renzo accennava nella sua introduzione
alle culture locali; io dico che una cultura locale è anche portatrice di
un sistema socio-economico locale: perché a quel livello non ci dovrebbe
essere un processo di concertazione? Non è un problema di dare un
giudizio di merito sui risultati del processo concertativi, né di
ritenerlo la formula che risolve tutto; ma uno strumento che consente a
una rappresentanza viva della società di poter negoziare le scelte, uno
strumento da cercare di costruire. Un’ultima battuta, che vorrei dire a
Vladimiro: io non vedo tutta questa grande disponibilità a costruire
processi di partecipazione, in Umbria; non mi pare proprio: noi abbiamo il
problema della rivisitazione degli strumenti di partecipazione aperta al
livello dei Comuni, a livello della Regione dell’Umbria, da anni: se ne
discute, ma non si è fatto un passo avanti. Su questo si è inserito il
problema dell’elezione diretta del capo degli esecutivi: quando uno si
ritiene investito, che orrore che è l’idea della democrazia diretta!
Sono gli effetti di una devastazione senza limiti da parte di chi si
ritiene investito di un potere sovrano perché è stato eletto
direttamente dal popolo e quindi nessuno può discutere quello che fa, e
ritiene che un mandato così ampio lo mette al coperto addirittura da
qualsiasi verifica in itinere. E aggiungo un’ultima cosa: non solo in
Umbria, ma in tutta Italia c’è una tradizione che è difficile da
superare, ed è quella della mediazione diretta, il più delle volte non
alla luce del sole, nel senso di andare nell’ufficio dell’assessore o
del sindaco a chiedere di fare una cosa; per questo la partecipazione ha
un grossissimo stuolo di nemici, non platonici ma nemici attivi, che
producono iniziative, pensano politicamente e socialmente tutti i giorni e
tutte le ore per far saltare questi meccanismi di mediazione sociale
palese, perché vogliono che la mediazione avvenga a un altro livello, con
un atteggiamento di sopraffazione: io sono un corpo sociale che pesa di più
e allora spunto di più, e non voglio spartire con gli altri; io ho più
potere di decidere su una azione delle pubbliche istituzioni e allora non
mi interessa che ti inserisci anche tu. E’ l’idea di società che in
questo momento, perlomeno sul piano numerico, è vincente: il governo
nazionale individua nei corpi intermedi i suoi peggiori nemici.
Il “comitatismo” tra partecipazione e chiusura
Vanessa Pallucchi, Presidente di
Legambiente Umbria: Vorrei dire qualcosa su questo fenomeno consistente
che è stato detto del comitatismo, cioè la formazione di comitati locali
di scopo: ad esempio a Ponte Valleceppi c’è una distilleria accanto a
un deposito di gas, con pericolo di incidente, allora sorge un comitato su
un problema forte, reale, circoscritto a quel posto; poi invece ci sono
dei comitati che si formano non su una visione collettiva di un problema
ambientale, ma secondo la logica “dappertutto meno che davanti a casa
propria”, che può essere la discarica, l’impianto eolico; in questo
caso occorre ragionare: anche noi, come Legambiente, siamo favorevoli che
non ci sia una discarica…, ma bisogna fare anche una valutazione di
quello che può essere una realtà: se c’è una necessità collettiva,
questa va analizzata. Spesso però il comitato si crea su un interesse
localistico; occorre ragionare su quale può essere la riduzione dei danni
in rapporto costi-benefici; la partecipazione, molto spesso, per quello
che posso vedere io, almeno a livello di riflessione antropologica, mostra
proprio la perdita di un senso di collettività locale di fronte a questo,
perché la gente si aggrega intorno al comitato su un nuovo argomento che
non è più l’interesse collettivo, che diventa però un tema che
aggrega quella comunità, e quindi diventa un comitato chiuso, non aperto,
cioè non partecipa per costruire, partecipa per difendere; quindi è un
fenomeno abbastanza preoccupante, perché a volte non si riesce a
costruire sul piano dell’interesse collettivo.
Karl-Ludwig Schibel: Qualche
volta è nostro punto di partenza, per lavorare non dico solo “il
comitato è aperto, è chiuso”: da lì in poi si lavora.
Vanessa Pallucchi: Certo, su
questo poi si interagisce, magari insieme si cerca anche di costruire un
documento che raccolga una riflessione più globale, per capire dove è
inserito il problema che difende il comitato; questa è infatti una
operazione che va fatta sul territorio, di confronto con noi associazioni
ambientaliste, che possiamo essere portatrici di una visione più globale;
però il comitato all’inizio nasce molto ancorato a quella specifica
situazione. Questo sicuramente per avviare un processo di partecipazione
vera, sul modello di Agenda 21, che è un modello di educazione e di
partecipazione; educare alla partecipazione che comporta uno sforzo di
favorire una comunicazione diretta fra le persone.
Come costruire il modello partecipativo
Federico Sotgiu: Boccali parlava
della partecipazione organizzata dal comune e della sua inefficacia
sociale; diceva, e mi viene quasi da ridere: ma quale partecipazione c’è
stata sul piano regolatore? E citava un numero altissimo di osservazioni e
rilievi. Certo, si potrebbe osservare che più partecipato di così il
piano regolatore non potrebbe essere; ma chi ha partecipato? Chi aveva
interessi; e chi aveva interessi ha dialogato più o meno direttamente le
cose che ha sempre fatto; sono determinati interessi che emergono, e non
quelli della collettività. E allora, per quanto riguarda le modalità, io
credo che senza illuderci, e senza attivare corse a chi è più bravo
nell’attivare processi partecipativi, il discorso primario è come
garantire soprattutto la presenza dei soggetti deboli, per costruire un
meccanismo che consenta veramente di coinvolgere la cittadinanza. E’ un
lavoro di tipo culturale, è un discorso di tipo organizzativo, è un
discorso anche di tipo scientifico, di conoscenze reali della materia.
Questo processo però va costruito; per questo il discorso del bilancio
partecipativo è importante per le prospettive che ci apre, perché è il
principio per ricostruire una reale partecipazione dei cittadini alla
politica, per ridare spazio a una politica partecipata, in cui tutti si
interessino del proprio futuro e non si limitino a subire le cose che
vengono decise. Oltre a questo, mentre il bilancio partecipativo,
soprattutto nei paesi dell’America latina, riguarda solo l’utilizzo
delle risorse, nel nostro territorio dovrebbe essere messo in piedi un
meccanismo di partecipazione più ampio, che investa anche, per esempio,
le trasformazioni del territorio, e
il discorso della formazione stessa, del lavoro: tutto quello su cui in
qualche modo il Comune ha titolo, deve essere sottoposto a un modello
partecipativo di tipo reale. Un’ultima cosa: non mi convince molto
quello che diceva Zupi sul discorso dei soggetti intermedi, perlomeno
nella misura in cui questi siano istituzionalizzati, perché se no si
costruirebbe di nuovo un meccanismo di stacco fra il cittadino singolo e
l’organismo rappresentativo istituzionale,
che interviene attraverso un soggetto intermedio che viene a sua
volta istituzionalizzato; mentre è ovvio che non tutte le questioni
possano essere affrontate attraverso il meccanismo della Piazza grande: si
tratta di costruire un modello di costruzione dei rappresentanti che sia
democratico e che non sia istituzionalizzato.
I poteri sopranazionali
Piero Fabbri: Penso che viviamo
in un’epoca in cui da una parte c’è questa tendenza forte di
riappropriazione di modalità di decidere a livello locale e localistico,
e c’è una disponibilità a non delegare ad organismi che invece sono
sempre più lontani. Poi c’è
un’altra interferenza: ci sono poteri immensi, sopranazionali che non
sono nemmeno tanto ben identificati, e quelli che sono identificati non
sono controllabili come la Banca mondiale, l’Omc, questi organismi che
vivono quasi di vita propria. Quel tipo di bilancio su cui siamo chiamati
a decidere non è neppure l’atto sostanziale della Giunta, è
l’emblema di quello che veramente siamo chiamati a decidere rispetto
alla complessità. La possibilità effettiva di contare e di decidere
subisce una espropriazione tale che tutto diventa un simulacro, oppure una
rappresentazione: va a finire che quello che noi decidiamo o ci sembra di
aver deciso, se entra in contraddizione con questi organismi così grandi
e così distanti, non ha nessuna efficacia. Quindi io credo che noi
dobbiamo ridisegnare sia la
nostra possibilità di agire, sia gli obiettivi; perché fino a che punto
siamo realmente decisivi in questo processo “alternativo”, quando poi
l’elemento determinante è la contabilità economica? Questi temi,
secondo me, hanno bisogno di elaborazione.
Quando la partecipazione è il suo contrario
Karl-Ludwig Schibel: Una sola
osservazione: evidentemente questo concetto della partecipazione ha
bisogno poi di aggettivi per diventare reale. Così parliamo di reale
partecipazione, o di partecipazione sostanziale. Ma la
partecipazione in realtà va costruita tenendo conto che molto di quello
che adesso passa per partecipazione è il suo esatto contrario. Cioè
sotto questa etichetta si assorbono energie che potrebbero entrare in
questo campo. Però anche la partecipazione al piano regolatore, il fatto
che ci siano duemila persone che fanno osservazioni, fa parte di questa
partecipazione fasulla, che assorbe le energie perché dà un canale per
spostare un palo di un metro e mezzo e quindi la sensazione di aver fatto
qualcosa. Anche per ciò che riguarda quei comitati che partono sì da
interessi del tipo “ovunque meno che davanti a casa mia”, ma sono il
punto di partenza per il lavoro di una organizzazione come Legambiente,
niente di male se la gente ha la sensazione di poter cambiare qualcosa
della mia vita, ma se non si riesce ad uscire dal proprio cortile non è
un fallimento del comitato chiuso, ma un fallimento di Legambiente o di
altre organizzazioni di questo tipo.
I soggetti intermedi tra partecipazione e rappresentanza
reale
Amedeo Zupi: Molte considerazioni
riguardano le difficoltà di spazi reali di decisione in ambito locale; e
sicuramente la riforma federalista non è di per sé una garanzia di avere
spazi maggiori in sede locale; però alcune potenzialità andrebbero
colte, portandole fin dove è possibile portarle. Renzo all’inizio
faceva un accenno alla gestione del conflitto; faccio un esempio: noi oggi
abbiamo una deriva fortissima di smantellamento della tutela della salute
dei cittadini: l’Umbria, volendo, potrebbe percorrere una strada diversa
e in parte la sta percorrendo: questo a un certo punto può entrare in
conflitto con le risorse, e si apre una vertenza col governo nazionale
sulla destinazione delle risorse; in più questo ci dà un altro elemento:
l’avvicinare gli ambiti in cui si decidono le politiche a un livello più
prossimo alla collettività.
Andrea Chioni: Questo sta
accadendo, in realtà: lo spostamento del drenaggio fiscale è molto più
vicino adesso ai centri locali; non è più lo stato che prende la maggior
parte del carico fiscale, ma sono gli enti locali.
Amedeo Zupi: Certo, quindi si può
cominciare; ovviamente rimane il problema di non mettere in discussione
alcuni livelli minimi, che debbano valere da Agrigento a Bolzano.
Un’ultima osservazione sulla questione dei soggetti intermedi: prima si
faceva riferimento al sorgere di comitati di scopo, tipo “non voglio la
discarica sotto casa mia”, il che è più che legittimo, però da
qualche parte bisogna pur farla. Io delineo questo scenario: se le
istituzioni che devono decidere fanno un processo concertativo con i
soggetti intermedi, in questo caso le forme di aggregazione per la tutela
dell’ambiente, è molto più probabile che un soggetto intermedio possa
assumere una decisione che media tra interessi diversi, che non il singolo
cittadino, che ovviamente non è portato a farlo, e nella maggior parte
dei casi non lo fa. Un ruolo del soggetto intermedio è anche il fatto di
essere portatore di un interesse
più complessivo, anche se
non sempre avviene. Infine, noi abbiamo
il problema, che non si risolve da un punto di vista di
architettura organizzativa: se i soggetti intermedi sono sedi di
democrazia e di rappresentanza reale oppure no; e questo è un problema,
che però non trova risposta nell’architettura organizzativa: io ho
visto alcune delle associazioni più estemporanee essere di una chiusura
che non si può nemmeno immaginare come strumento di partecipazione; come
ho visto anche soggetti intermedi istituzionali che hanno a poco a poco
ammazzato qualsiasi tipo di rappresentanza reale. Il problema è se ci si
misura sulla rappresentanza di interessi di pezzi di paese, di pezzi di
società, anche di pezzi di territorio. Questo è un problema che dobbiamo
aver presente, sul quale si fa scontro politico, non organizzativo.
Negoziazione e conflitto
Maurizio Gubbiotti: La
partecipazione, quella di cui stiamo trattando, apre un percorso diverso,
all’interno del quale non possono che essere scelte di tipo locale, per
esempio capire le vocazioni di quel territorio, siccome su questo terreno
si può tenere in piedi lo sviluppo locale; questo non può che avere una
partecipazione vera da parte dei cittadini, perché intervengono su delle
scelte concrete, possono decidere il loro futuro e il futuro dei loro
territori. E su questo, e sulle cose che diceva Zupi, si vede anche il
limite del sindacato: in realtà, per semplificare, dov’è che è finita
male la concertazione? Sul fatto che nella concertazione si è passati
dalla negoziazione alla co-gestione, e in quel momento la concertazione è
entrata in crisi.
Andrea Chioini: Però è stato
proprio quando dall’orizzonte è stata cancellata l’ipotesi del
conflitto, che è andata in crisi quello che era il punto più avanzato
del concetto di partecipazione.
Maurizio Gubbiotti: Indubbiamente
il sindacato è stato il primo a dover mettere in discussione l’idea di
rappresentatività. Per questo io sarei più attento su questo tema, che
richiama di nuovo questo modello di sviluppo e di società, mentre noi
abbiamo oggi uno strumento capace di metterlo in discussione. Cioè,
l’innovazione può e deve rappresentare la capacità di valorizzare le
culture, i saperi, ecc.; nel momento in cui non lo fa è un’innovazione
di altro segno, su tecnologie imposte dall’esterno.
Tecnologia e comunicazione
Andrea Chioini: Attenzione però
alla critica alle tecnologie; proprio perché spingono all’atomizzazione
e quindi cancellano il piacere, il pathos della partecipazione, i luoghi
fisici in cui ci si ritrova.
Maurizio Gubbiotti: Sì, però
c’è il fatto che in certi paesi o comunità c’è difficoltà a far
arrivare delle idee, e soprattutto a far emergere e a mostrare le cose che
si fanno; il problema è che quando la tecnologia diventa l’imposizione
di un modello e di una omologazione a quel territorio o comunità, si sta
facendo un crimine; ma la tecnologia può anche essere la possibilità di
avere una visibilità, una identità: il problema è sempre l’uso che si
fa delle tecnologie.
Luciano Cancelloni: Una battuta:
so che questi giorni si devono incontrare gli internettisti in un grande
convegno per incontrarsi; ma è l’enfasi su internet che crea il
distacco tra l’uomo, il pathos, e la realtà della vita; e questo mi
spaventa.
Maurizio Gubbiotti: Non so se ti
è capitato di leggere una stampa delle cose che chiamano “ciattare”:
è impressionante sia per la velocità di scambio, nel senso che loro si
rispondono senza aspettare che l’altro abbia finito di scrivere la
frase, che per il testo, completamente sgrammaticato e spezzato, appunto
come una chiacchiera: questo è oggi una realtà.
Partecipazione tra educazione e
piacere
Renzo Zuccherini: Due parole che
mi rimangono, tra tutti gli stimoli che sono venuti stasera e che sono
tantissimi. Una è educazione, per i discorsi su autoeducazione ed
educazione; e mi pare che si pone come necessità rispetto al tema che io
ponevo all’inizio, e che è tornato più volte nel dibattito, quello del
conflitto e della mediazione dei conflitti. Certamente la mediazione dei
conflitti avviene a vari livelli, e quindi anche a livello di
rappresentanza; personalmente la direzione della azione deve andare al
livello più basso, al livello delle persone e dei loro modi di
aggregazioni locali: lì si deve imparare a gestire i conflitti, e dunque
ci deve essere uno sforzo educativo in questo senso. Ecco perché accolgo
questi stimoli sul tema dell’educazione, che sono venuti da più parti.
Si è detto: una volta c’erano i partiti, che facevano uno sforzo
educativo; probabilmente lo facevano in senso organizzativo ed unificante
intorno ad elementi anche autoritari; lo sforzo educativo di oggi deve
essere quello di dare alle persone gli strumenti per gestire i conflitti
che vivono, e di cui devono anche prendere coscienza, perché qualche
volta forse manca questo. L’altra parola che volevo rilanciare è piacere,
come piacere di incontrarsi. Noi non viviamo più soltanto un territorio,
viviamo molte forme di territorio, perché abitiamo in un luogo, lavoriamo
in un altro, poi accendiamo internet e siamo in un altro territorio…
Forse l’idea di avere una vicinanza anche fisica
in ciascuno di questi territori, visto che anche gli internettisti
ne sentono il bisogno, è un segnale importante, perché comunque c’è
bisogno di confrontarsi, di stare nel luogo fisico, circolo o comitato che
sia. La partecipazione dunque è soprattutto l’educazione alla
partecipazione, cioè l’educazione a dare spazi in cui la gente decida,
sia pure minimi, e io sono forse ancora più ottimista: ma se la gente
impara a fare le cose, e impara a decidere sia dove sta il palo della luce
come diceva Schibel, sia dove mettere la discarica, impara anche ad
assumersi responsabilità. E forse piano piano – senza farsi illusioni
perché è vero che le grandi decisioni vengono prese altrove – comunque
impara ad assumersi anche a pensare: “se sta qui la discarica è anche
colpa mia, dei miei rifiuti e delle mie scelte”: sarebbe già un
risultato. Tornando a internet, non si può mai demonizzare la tecnologia,
certamente esiste anche questa grandissima possibilità di circolazione di
idee: non è che le culture si sviluppano perché stanno dentro un luogo e
non hanno contatti, anzi è proprio il contatto che le fa sviluppare; ma
credo che puntare di più sulla vicinanza fisica, sul far tornare le
persone a incontrarsi sia un elemento importante e una discriminante, per
cui quando diciamo che oggi dobbiamo mettere
in atto una tendenza diversa significa che discutere di bilancio
partecipativo, discutere di nuova aggregazione ci dà un segnale di
tendenza, discriminante rispetto ad un altro modo di concepire la
comunicazione e la presa di decisione.
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