L’utopia contro la Città UfficialeVoglia, sogno, forza, eresia della poesia-profezia Intervista a Gianni D’Elia La tua poesia ha un evidente ascendente pasoliniano, sia nelle occorrenze formali, sia nei contenuti. In che modo l’opera di questo grande “dissidente e vero autore di avanguardia del secondo Novecento”, come tu lo definisci, influisce sul tuo pensiero e sulla tua poetica? È difficile quantificare l’influenza di un autore. Quanto a Pasolini, sì, ho ripreso, forse, forme e contenuti, che andrebbero, però, specificati: la ripresa di una metrica, apparentemente tradizionale (quartina e terzina), e in realtà fondata sull’eccesso ideologico e melodico, fino al brutale; e la ripresa del “contenuto” (a sua volta contenuto in ogni vivo) del rapporto, o, se si vuole, del conflitto, tra corpo e storia, irrazionalità e senso storico. L’attività di Lengua nasceva nell’’82, nel contesto di vivacissimi fermenti politico-culturali, in continuità con il modello di Officina, nel solco di un impegno a non separare le forme dalle idee, la poesia dalla storia e dalla vita. Vuoi raccontarci quell’esperienza e farne un bilancio? Sono dieci anni che si è chiusa “Lengua”, l’ultimo numero esce nel 1994. Quattordici volumi, in cui forse sta una parte considerevole della poetica critica degli anni ‘80-’90: la necessità di “ricaricare” la lingua letteraria con un apporto paradossale: le lingue poetiche dialettali, ormai morte o semivive nel sociale, capaci invece di risvegliare l’impronta del parlare dentro la lingua scritta. Li abbiamo chiamati “neovolgari”, sia le lingue dialettali che i poeti neodialettali: Loi, Scataglini, Baldini, Giacomini, fino ai più giovani, come Giovanni Nadiani e Nevio Spadoni, per citare i migliori. “Lengua” chiude per una salutare crisi: la consapevolezza che si è chiusa una fase, quella della ridefinizione di una poetica linguistica, a partire dal parlare, anche per quanto riguarda l’italiano poetico. Anzi, dopo aver “rubato” ai dialettali il soffio, si è capito che una poetica linguistica non basta, ed è anzi fuorviante, in quanto ogni parlare portico (italiano o neovolgare) dovrà fare i conti con la realtà e l’ideologia più larga. Insomma, ci si è troppo concentrati sullo strumento, dimenticando il sentire e il pensare poetico più profondo, storico, incarnato. Qual è stato il tuo rapporto con l’altro grande poeta marchigiano, Franco Scataglini, e in generale qual è il tuo rapporto con la poesia dialettale? Franco Scataglini mi tiene ancora un braccio sulla spalla, guardando le colline del purgartorio marchigiano. Mando a meoria i suoi versi, lo amo. Dopo Leopardi, è il nostro poeta più grande, cioè, per me, più memorabile, un poeta d’amore e di cammino sapienziale, così moderno e così antico, innesto del neovolgare sull’italiano poetico, da rileggere, come i poeti citati in precedenza, da frequentare. Vorrei che ci parlassi del tuo ultimo libro Bassa stagione, della sua genesi e dei suoi momenti salienti. Magari riuscissi a descrivere bene la genesi, come la chiami, e i momenti salienti del mio ultimo poema! Avrei davanti la chiarezza del cammino da fare, che continua. Un libro è sempre dentro un altro libro, che ne sguiscia fuori, a sua volta, nella chiarezza del già fatto. C’è il diario di quattro anni, un diario poetico narrativo, fondato sulla compresenza del titolo: una bassa stagione climatica, e una bassa stagione storica, morale. Comincia con una tempesta d’aria, e finisce con la tempesta della storia, le stragi in America, l’abiezione governativa italiana, le guerre in corso. La lezione più grande per me, come autore, è stato sperimentare il movimento dei materiali, e cioè la composizione filmica di scene recitate, e l’apporto, tramite il montaggio, di altri frammenti (magari epigrammatici o lirici) ora dislocati nel dialogo delle voci (l’io e il suo maestro): la promozione del monologico a dialogico, e l’apertura verso una fase nuova, di romanzo drammaturgico, di contaminazione tra comico e elegiaco. È quanto sto proseguendo, con il nuovo poema in corso, che continua sul tema della tempesta personale e epocale, naturale e storica. Si intensifica in quest’opera una tecnica espressiva - già presente nelle due precedenti, Il congedo della vecchia Olivetti e Sulla riva dell’acqua - che assomiglia ad una sorta di montaggio filmico del vissuto, in un crescendo di ritmi e movimento (penso a Starway to heaven, ad esempio, ma anche a molte delle nuove liriche, vedi È tutto il giorno che giran sulla testa o È sera, chiara; ronza la catena). In che modo il cinema può entrare nel linguaggio poetico e potenziarne la visibilità? Se la realtà è l’azione, la lingua orale della vita, il cinema, dice Pasolini, è la lingua scritta della realtà. Per me, anche le terzine assomigliano a fotogrammi, condensano, nella lingua scritta della poesia, il messaggio del cinema vivente. I miei ultimi libri, forse, sono film, e sono costruiti come tali, con riprese e montaggio dei materiali prefilmati, con una tecnica libera godardiana, da cinema della lingua, il cui capostipite è Dante. Pensiamo all’incredibile film della Commedia: azione pura dei corpi e del pensiero, dialogo ininterrotto, lingua parlata (il volgare) che diventa lingua scritta, per ritornare ad essere lingua parlata nelle voci dei personaggi: l’avanguardia dantesca, che Pasolini continua. Seguiamo la scia dell’avventura nuova… Nella tua poesia, le frequenti sospensioni attraverso i puntini si alternano ad altrettante domande che talvolta sembrano voler interrompere la riflessione avviata, talvolta attendersi una precisa risposta. Che valore assegni a queste occorrenze? L’intelligenza della domanda contiene già la risposta: l’interruzione è la sospensione (i puntini pregrammaticali) del continuum epico-vitale-espressivo; ed è anche l’attesa del dialogo venturo col lettore… Dissolvenza e interrogazione; se volessimo usare ancora termini tecnici: funzione diegetica e fondazione conativa del dire. Come ti appare l’attuale panorama della poesia fra le giovani generazioni, e c’è oggi, a tuo parere, uno spazio per ideali collettivi in cui riconoscersi e di cui la poesia possa farsi portavoce accanto ai personali bilanci esistenziali, al resoconto di vissuti privati? La voce del maestro interiore, nell’ultimo libro, parla della nuova generazione, con un certo rimprovero per la carenza ideologica, e indica l’utopia contro la Città Ufficiale: voglia, sogno, forza, eresia, della poesia-profezia (pagg. 52-53). L’indifferenza alla visione complessiva è la più grave colpa di questa nuova generazione, che vivacchia, nel rifiuto di sottomettere la poesia stessa a qualcosa di più grande, o almeno alla rabbia e allo scandalo della gioventù: sono quasi tutti già in carriera, molto cresciuti, accorti, e spaventosamente monotoni. Però, c’è un risveglio dei giovanissimi: una rivistina come La biblioteca di Babele, che si fa ad Ascoli, e un poeta di vent’anni, Davide Nota, che farà molto; un altro poeta di venticinque, sempre marchigiano, Enrico Piergallini. Buona poesia e forte ideologia in cammino, ricerca, critica militante. È quanto manca: non a caso, questi e altri giovani rileggono Officina e Lengua, per ritornare al compito della realtà e della sua concezione più plenaria: penso a un poeta-narratore-critico notevole come Flavio Santi. Come può l’utopia infrangere il “sogno dell’incredibile vita” tra “campi di cadaveri e passerelle di dee / maciulla di civili e guerre degli ascolti”, e la poesia restituire i suoi sensi all’esistenza? Bisogna insistere sulla linea della Ginestra e della Religione del mio tempo, riattivare i maestri inconsci, praticare l’utopia quotidiana, non parlare la parola, ma la cosa. E oggi, soprattutto, opporsi alla dittatura vera e propria dei padroni del linguaggio, della politica e dell’economia, che impedisce una vita poetica a chiunque. (ottobre 2003) (Brunella Bruschi) |