Una città per stare, non da attraversareRenzo Zuccherini
Partirei dall’idea di città, di cui ha parlato Lello Rossi, anche al di là delle singole soluzioni proposte dai due autori; una idea di città che ha bisogno di essere discussa e condivisa da una opinione diffusa, anche per sostenere l’attività amministrativa. Allora io dirò l’idea di città che mi sono fatto dalla lettura del libro. Certo trovo un poco preoccupante che, per parlare delle idee sul luogo in cui si vive, si parli di utopia: mi pare una spia di un disagio profondo, dover parlare di utopia a proposito della vita quotidiana, dell’organizzazione della città in cui viviamo. Ma sono convinto anche del metodo usato da Rossi: cioè l’idea di pensare al futuro sempre ancorandosi profondamente alla storia, alle persone che sono vissute in questi luoghi, alle culture che vi sono state elaborate, all’ambiente che li contraddistingue, per poter poi iniziare a ragionare sul futuro. Innanzitutto una città è un centro. Lello Rossi parlava di policentrismo: noi abbiamo avuto in eredità non solo una regione, ma anche una città policentrica, fatta di tanti poteri tra loro equilibrati, anche in competizione ed in conflitto, ma tanti e diffusi; ecco una regione di città stellari, città che controllano il proprio territorio, e all’interno delle città una articolazione del potere molto diffusa. Ecco allora il bisogno di un centro: ed ecco l’importanza della piazza. Ne è stata inaugurata una da poco, a Ferro di Cavallo, e mi sembra un tentativo di riconoscere un luogo che rappresenti in qualche modo il valore di simbolo: come è simbolo la Fontana, così può essere simbolo un centro civico; si tratta di luoghi in cui sia possibile la socialità, non solo con i tavolini dei bar, che pure sono necessari, ma in cui sia possibile avere per tutti il tempo e lo spazio per stare insieme, spazi di socialità e condizioni di convivialità. Un altro motivo che attraversa il libro è quella della pedonalizzazione, che cerca di contrastare il fatto che la città è usata come attraversamento. La città di Perugia, non solo il centro storico ma anche tutti i centri abitati del comune, oggi non sono luoghi, sono attraversamenti di luoghi: cioè nessuno ormai va in Piazza Grimana, ma tutti ci passano; nessuno va a Ponte San Giovanni, ma tutti ci passano. Da questo nascono i disagi della città; e da questo nasce la necessità di aumentare man mano gli spazi liberati dal traffico. Anche le parole hanno la loro importanza: anzi, vorrei che la stampa non dicesse più “chiuso il centro”; cominciamo ad usare un linguaggio adeguato, perché dire chiuso ci mantiene dentro un’ottica per così dire automobilistica. Punto centrale nel libro è l’individuazione di luoghi simbolici: e luoghi simbolici sono anche le stazioni. Faccio l’esempio della stazione di Ponte Pattoli, dove sembra che sia passata una devastazione, una guerra; ma anche a Ponte Felcino, dove pure la stazione potrebbe essere un luogo centralissimo, non si ricorda nessuno che c’è. Ma non è solo questione del valore simbolico di questi luoghi: vanno sempre tenuti in relazione con la storia, la cultura, l’ambiente, il territorio. Invece si è pensato di prendere la mappa della città e disegnare dei quartieri nuovi come se in quelle zone ci fosse il deserto: invece sono state fatti lavori molto interessanti per ricostruire la memoria e la cultura dei luoghi in cui la gente viveva in un rapporto equilibrato con l’ambiente, da centinaia di generazioni, e quindi lo sentiva proprio, e pur non essendone proprietaria in senso giuridico però ne sentiva il possesso, se ne era impossessata. L’altro punto interessante che trovo nel libro è lo sguardo, il guardarsi: cioè il parlarsi, che significa stare insieme in un luogo, dove possiamo renderci conto che ci sono gli altri, che esistono, che hanno molte cose da dirci. Un esempio molto bello l’ho trovato nel libro di Fiorella Giacalone sugli stranieri a Ponte San Giovanni, sullo sguardo degli emigrati che arrivano nel quartiere, lo osservano, e ci restituiscono l’immagine del quartiere: è un quartiere che non hanno fatto loro, lo abbiam fatto noi in quel modo. E cosa vedono? Vedono una serie di palazzi, una periferia; vedono anche il nuovo centro che si sta tentando di realizzare a P. S. Giovanni, come qualcosa che però non appartiene ancora a loro. E questi ragazzi che vengono intervistati dicono: “ma che cosa c’è di bello in palazzo?”. Ma uno non può abitare in un luogo di palazzi e non trovare niente di bello nel palazzo in cui abita; sarebbe il caso di trovare qualcosa di bello. Ultimo punto, di cui ha parlato benissimo Lello Rossi, è il bisogno di partecipazione, per cui le decisioni che riguardano i luoghi in cui uno vive siano prese anche dai cittadini; il che non vuol dire assenza di responsabilità, e vuol dire anche delega, però anche sulla base della volontà di chi abita nei luoghi, e trovando quindi i modi per far esprimere tale volontà Tutto questo significa costruire una città in modo che risponda ad una idea. E pensare la città è strettamente connesso al tipo di indirizzo politico; la città del Due-Trecento, cui accennava Rossi, non nacque per caso: non è per caso che al centro della città c’è una Fontana rotonda, non è per caso che noi abbiamo completato il Palazzo dei Priori, ma non abbiamo finito di fare il Duomo; non è per caso che la città si sia sviluppata fino al Quattro-Cinquecento e poi, dal Cinquecento in poi, la città si ferma. Allora la crescita della città è strettamente connessa all’idea della piazza, dell’incontrarsi, del guardarsi, del parlare, all’idea quindi di luoghi formali e informali di socialità. Questo libro ci offre un repertorio di proposte, di idee, che io ho letto come un impegno per questa idea di città, cioè: · primo, interrompere l’attraversamento; ciascuno dei luoghi di cui parla il libro, non può più essere un luogo da attraversare, ma un luogo in cui stare. Ci deve essere una volontà di bloccare l’attraversamento: che sia in Piazza Grimana, a Ponte San Giovanni, a Ponte Felcino; non è facile realizzarlo; ma è anche vero che solo apparentemente la macchina è comoda per spostarsi da Ponte Felcino a Perugia, se consideriamo che è il traffico che ostacola il traffico; dunque possiamo provarci, senza dover costringere gli abitanti di un quartiere a vivere nel traffico, a non affacciarsi alle finestre perché ci passano i camion, a non permettere ai bambini di andare a scuola da soli, o di camminare per le strade, a non permettere agli anziani di passeggiando, magari per parlar male del governo o del comune. · in secondo luogo, l’impegno per i prossimi decenni, dovrà essere quello di bonificare i luoghi, nel senso democratico della partecipazione e della ricostruzione, quello che esiste: ripensare i luoghi, chiedendo a chi ci abita come vuol abitarci. · infine, creare impossessamento, cioè fare in modo che la gente dica: questa è la mia città, questo è il mio quartiere. Questo in parte è stato reso possibile dalla creazione di associazioni; queste spesso hanno saputo creare un tessuto, in zone di nuova urbanizzazione: dunque la cultura locale può cambiare il volto del quartiere.
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