Sei miliardi di narrazioni

Condividere il mondo significa dichiarare illegale la povertà

Intervista a Riccardo Petrella

 

I sei punti per condividere il mondo:

1. condividere la responsabilità della garanzia del diritto alla vita per tutti gli esseri umani

2. condividere il potere di partecipazione alle decisioni in materia di allocazione delle risorse disponibili sul piano nazionale, nel quadro di una architettura politica mondiale cooperativa, solidale, rispettosa dei diritti dei più deboli e delle minoranze

3. condividere la memoria: le classi dominanti ci hanno espropriato della memoria e ci raccontano solo ciò che interessa loro (banche delle immagini, informazione…): occorre una scrittura condivisa della memoria di tutti

4. condividere i saperi per metterli al servizio delle comunità locali: l’economia della conoscenza divide il mondo (es. i brevetti), la conoscenza come bene comune

5. condividere la sicurezza di vivere insieme:  il tempo di vita non è solo il tempo remunerabile; si accorcia anche il tempo di vita delle risorse e delle merci, scompaiono i laghi e i fiumi: ridare la sicurezza di vivere il proprio tempo

6. condividere la capacità di sognare: il sistema si perennizza perché convince che non si può far nulla per cambiare: immaginare una diversa visione della realtà, riscoprire l’importanza degli spazi pubblici, creare fiducia.

 

Alcune pubblicazioni di Riccardo Petrella:

Il diritto di sognare, 2005

L’Italia che fa acqua, Ed. Intra Moenia/Carta, 2006 

 

DAL 2005, RICCARDO PETRELLA, FONDATORE E SEGRETARIO GENERALE DEL COMITATO INTERNAZIONALE PER IL CONTRATTO MONDIALE DELL’ACQUA, È ANCHE PRESIDENTE DELL’ACQUEDOTTO PUGLIESE. IL 29 APRILE 2006 È INTERVENUTO AL CONVEGNO “CONDIVIDERE IL MONDO”, ORGANIZZATO DALLA RIVISTA “L’ALTRAPAGINA” A CITTÀ DI CASTELLO, , SVILUPPANDO I SEI PUNTI DELLA CONDIVISIONE DI UN MONDO PIÙ GIUSTO E CAPACE DI FUTURO. GLI ABBIAMO CHIESTO DI APPROFONDIRE IL TEMA A PARTIRE DALLA DOMANDA CHE GLI HA POSTO ACHILLE ROSSI: COME È POSSIBILE MODIFICARE IL NOSTRO SISTEMA ECONOMICO, PERCHÉ SIA POSSIBILE POI CONDIVIDERE IL MONDO?

 

Sono contento che qui ci siano gli amici della Coop, perché sapete che negli ultimi anni la stragrande maggioranza delle imprese sono imprese capitalistiche private: non ci sono più le banche pubbliche, le casse di risparmio non sono più pubbliche, sono imprese capitalistiche; se c’è una impresa non capitalistica privata è la Coop, che però è sotto forte pressione e rischia di diventare una impresa capitalistica di mercato come le altre; ecco, un altro modo di fare economia significa mantenere delle imprese pubbliche e imprese cooperative. Il giorno in cui, sotto la pressione del mercato - e parlo in riferimento a Carrefour e Auchon, i quali vogliono buttar via la Coop come primo grande distributore in Italia, e pian piano ce la stanno facendo - se la Coop sparisce, è l’ultimo baluardo di impresa cooperativa in Italia. Quindi vanno sostenute, anche contro quello che sta facendo il loro vertice, perché il loro vertice si sta sbagliando, sta andando verso una logica capitalistica di mercato anche per le Coop. Dicono che non hanno alternativa: o diventano anche loro capitalisti privati, o saltano. Questo è un tipico esempio concreto di caso di scuola, per capire un principio generale. E oggi ciascuno dovrebbe riflettere su cosa sta facendo come cittadino, per mantenere un soggetto economico di tipo cooperativo nel paesaggio dell’economia italiana ed europea. E sappiamo che è questione di pochi anni: il giorno in cui Wall-Mart, in forma diretta, arriva anche in Europa, se i cittadini italiani non vanno al di là della logica del consumatore, la Coop sparisce. E un altro pezzo importante della storia economica cooperativa, della buona storia economica italiana, sparirà.

È possibile, nelle logiche oggi dominanti, avere un sistema economico fondato sulla cooperazione, sulla condivisione?

È possibile una condivisione del capitale, la cui logica non è riprodurre il capitale per ridistribuire in maniera sempre più ineguale, la ricchezza prodotta dall’uso di questo capitale: perché la cooperativa non fa diventare ricchi i membri della cooperativa, non c’è ridistribuzione ai proprietari: il socio della cooperativa non riceve denaro; la ricchezza della cooperativa va all’insieme dei membri, ma non ai singoli soci. Ed ecco il problema: siete disposti ad agire, in quanto cittadini, affinché forme non capitalistiche di mercato, appropriatrici del valore aggiunto dovuto al fatto di far avere accesso a tutti di beni e servizi? Oppure l’interesse del consumatore è attratto a comprare laddove la vostra equazione di ottimalità individuale è massima? Per me, la condivisione del mondo è una forma di raccontare: che narrazione del mondo vogliamo avere? Stando qui insieme, ciascuno di noi racconterà la sua visione del mondo. Quando si dice: tutti abbiamo una ideologia, vuol dire che logia viene dal greco logos che vuol dire discorso, idee. Tutti abbiamo delle idee: pensiamo che l’agricoltura dev’essere così, che il trasporto dev’esser così, che l’educazione dei bambini dev’esser così, che la Chiesa deve intervenire o non intervenire… abbiamo tante narrazioni. Quindi condividere il mondo è innanzitutto sapere se condividiamo la narrazione che abbiamo. La narrazione del mondo; ed anche la narrazione di Città di Castello, della propria famiglia; e quindi oggi bisogna sapere prima di tutto se è possibile costruire una narrazione non unica, ma comprensibile da tutti. Non ci può essere una narrazione unica nel mondo: siamo sei miliardi di persone, ci sono sei miliardi di narrazioni; però questa narrazione deve essere audibile, l’altro deve capire: ecco perché abbiamo i codici linguistici, che ci permettono di decifrare quello che si vuol dire. Ogni codice è importante: ognuno ha diritto a narrare la sua narrazione nel suo codice; ed allora la prima cosa che significa condividere il mondo è che tutti hanno il diritto alla narrazione. E quindi condividere il mondo significa innanzitutto che il mondo non è dato, come sembrerebbe a prima vista: l’Amazzonia non esiste se non è vissuta da una certa società, se non c’è una legge brasiliana che autorizza lo sfruttamento di venti milioni di kmq dell’Amazzonia, è una Amazzonia differente da quella in cui Lula autorizza quello sfruttamento: l’Amazzonia cambia, a seconda delle politiche che si fanno. Se si pensa che noi viviamo in un mondo di dati, che sono difficilmente cambiabili e non sono invece il risultato della storia delle persone, dei gruppi, delle città,  dei paesi, allora restiamo nella retorica del condividere il mondo. Se non crediamo che possiamo cambiare il mondo, non si può condividere il mondo.

Il terzo postulato è che condividere il mondo significa essere pronto a condividere qualcosa che si ha, cioè a mettere in comune le cose essenziali del vivere. Le cose essenziali del vivere non appartengono solo a me: io non posso vivere senza aria, ma neanche voi potete vivere senza aria, quindi condividiamo l’aria che respiriamo. Dobbiamo necessariamente condividere l’aria, perché fa parte della nostra vita: ciò che è essenziale alla vita è necessariamente non individuale, non personale: ecco perché possiamo condividerlo. Se io potessi vivere con un’aria, o con un’acqua diversa da voi, non abbiamo più niente da condividere, e quindi farò in modo che nessuno venga a prendere l’acqua che è essenziale per me; e se trovo che nel  mondo ci sono dieci altre persone che hanno la necessità di avere la mia stessa acqua, io tento di non fargliela avere, anche a costo di eliminarli. Ma tutti abbiamo bisogno della stessa aria e della stessa acqua per vivere, e quindi c’è una logica di condivisibilità dei beni e dei servizi, e questa logica è la base teorica e pratica e politica dell’esistenza dei beni comuni.

Il primo punto è che condivisione del mondo è innanzitutto condividere la responsabilità della garanzia del diritto alla vita per tutti gli esseri umani sul pianeta; tutti siamo responsabili di questo: non credete che sono  gli altri che devono creare le condizioni affinché tutti abbiano il diritto alla vita: non pensate che garantire il diritto alla vita a tutti i sei miliardi è affare troppo grande per voi, perché se oggi ci sono due virgola sette miliardi di persone povere, con meno di due dollari al giorno, anche noi siamo responsabili. Se voi date il vostro risparmio, invece che a una cassa di risparmio pubblica, che ha l’obbligo di utilizzare il vostro risparmio per finanziare lo sviluppo locale, ma lo date a una banca dandogli il diritto di finanziare una acciaieria in Australia, perché questo porterà più valore al vostro capitale risparmiato, di quello che avreste se lo date a una cooperativa o a una banca locale, voi siete responsabili dei due virgola sette miliardi di poveri.

Cosa significa che ciascuno è responsabile della garanzia del diritto alla vita?

Se si vuol condividere il mondo, nel senso di questo mondo in cui tutti hanno la capacità di narrare, significa che la prima proposta che bisogna fare è che non si può accettare il mondo qual è, è immorale, è inaccettabile, e quindi bisogna dichiararlo illegale.

Come si può dichiarare illegale il mondo?

Questo mondo è illegale: non rispetta il principio della garanzia al diritto alla vita; voi siete illegali se tentate di rubare l’automobile dell’altro. Questo mondo è conduttore di povertà: quindi la mia proposta è. Dichiariamo illegale la povertà. Come il XIX secolo dichiarò illegale la schiavitù, e ci vollero tremila anni per arrivarci, perché i primi che lottarono contro la schiavitù erano di tremila anni fa, io dico che siamo già a mille anni dopo il Cristo, abbiamo ancora mille anni per arrivare a dichiarare illegale la povertà, beh, mettiamoci al lavoro! Dichiarare illegale la povertà significa rifiutare la legittimità della narrazione dei dominanti: ecco perché c’è tutta la lotta sulle narrazioni, ecco perché ci sono le lotte ideologiche e politiche. Bisogna rifiutare la legittimità della narrazione dei dominanti, che spiega che è naturale e inevitabile che ci sia la povertà: perché i dominanti ci hanno spiegato, negli ultimi venti anni, che è naturale e inevitabile che ci siano due virgola sette miliardi di poveri, e che non è possibile cambiare. Quanti di voi, e di noi, in maniera onesta, credono che sia possibile costruire un mondo in cui non ci siano più poveri materiali, nel senso della miseria diretta? Quanti pensano che sia possibile costruire un mondo in ciascuno abbia una casa? Che abbiano da mangiare, da bere, che abbiano accesso alla salute, che non abbiano paura del futuro? Che sanno che quando avranno settant’anni, qualunque cosa gli capiti, ci sarà la società che in qualche modo gli garantisce la decenza di esseri umani? Quanti di voi sono convinti che si possa fare per tutti gli esseri umani, non per noi e i nostri figli e i nostri nipoti, perché pensiamo che se i nostri nipoti non possono, è scandaloso; e sarebbe scandaloso se i miei nipoti non avessero accesso all’acqua, all’educazione, ecc. bisogna che tutti siate decisi a far sì che non ci sia nessun povero. Eppure, la realtà è brutta, perché è mai possibile che sessanta milioni di Italiani si emozionino, giustamente, per Tommaso, e quando poi mentre noi siamo qui seduti ci saranno l’equivalente dello sfracello di più di cento Jumbo con quattrocento persone a bordo ciascuno, e saranno i 4500 bambini con meno di cinque anni che staranno morendo oggi, adesso. E dov’è l’emozione? Ora noi siamo emozionati sapendo che moriranno 4500 bambini.

Perché siamo incapaci di emozionarci per questo?

Non è che siamo cattivi. È il sistema della narrazione, il sistema della comunicazione, dell’informazione: i dominanti non hanno nessun interesse a che la gente sia emozionata per queste cose; però per un singolo bambino sì. Ma è possibile giungere nello spazio ragionevole di venti venticinque anni, una generazione, affinché sulla terra non ci sia più un bambino che muoia di malattie dovute alla mancanza di accesso all’acqua potabile sana? Si può fare. Se guardate le fotografie della fine degli anni cinquanta, in Puglia, tanta gente ha le brocche, e va alla fontana a prender l’acqua con le brocche: come tante donne e bambini africani o latinoamericani che vanno oggi alla fontana o al pozzo, a tre, quattro chilometri di distanza. Oggi non c’è nessuna donna pugliese che va al pozzo o alla fontana con la brocca, già da vent’anni: quindi in Puglia ce l’abbiamo fatta e la mortalità infantile è diminuita in modo spettacolare in Puglia grazie al fatto che c’è l’accesso all’acqua potabile.

E questo sarebbe possibile anche per l’Africa?

Ma perché per l’Africa o per l’America latina sarebbe impossibile? Quando la tecnologia c’è, e da un punto di vista finanziario bisognerebbe spendere al massimo quaranta miliardi di dollari all’anno per dieci anni, e tutti quanti potrebbero avere l’accesso all’acqua. E quando si spende l’equivalente in un anno per i contributi alle esportazioni dei nostri agricoltori: spendiamo 347 miliardi all’anno in sovvenzioni all’esportazione, oppure per far coltivare il mais nella Capitanata dove non c’è acqua, però diamo i soldi per sradicare gli ulivi e mettere il mais; così poi non importiamo il mais dall’Africa e quindi aggraviamo la loro situazione. Perché spendiamo 347 miliardi di dollari, noi ricchi, per sovvenzionare una agricoltura che rende più poveri gli Africani e i Latinomericani e che rende sempre più inevitabile il fatto che ci sia gente che non abbia accesso all’acqua potabile, e quindi che 4500 bambini muoiano ogni giorno? Condividere il mondo significa dichiarare illegale la povertà. Non c’è possibilità di avere la miseria di reddito e la miseria materiale. Però che si fa con i duecentomila e più giovani senza occupazione in Calabria, e che hanno qualche possibilità di occupazione se li occupa la ‘ndrangheta? E se si pensa che, su 340 milioni che abiteranno il Mediterraneo sud fra dieci-quindici anni, più del 55% avrà meno di ventun anno, dove andrà a lavorare questa gente? E poi si dice però che il Marocco, come l’Italia, devono essere competitivi. Che competitività può avere questa gente? Cosa inventano per essere competitivi, il google, la nanotecnologia, una maniera nuova di vendere per corrispondenza? Invece questi saranno quelli che diventeranno la causa principale dell’immigrazione verso di noi nella violenza. Questo non si può accettare: non si può accettare che abbiamo questa non condivisione del mondo nel Mediterraneo, dove l’unica politica possibile è che la Spagna ha la sua politica del Mediterraneo, e la Francia la sua, e l’Italia vuole occupare il  posto al sole del Mediterraneo, perché l’Italia è culla del Mediterraneo; dove la Puglia vuol essere il ponte verso l’Oriente, cuore naturale del Mediterraneo! Balle! E poi si fa la Fiera del Levante dove si mettono in mostra quelli più competitivi, quelli che fanno più mercato, che non vogliono più le Casse di risparmio pubbliche in Puglia; o che faranno sparire la Coop in Puglia. Quindi oggi, e la gente lo sta dimenticando perché ormai la narrazione dominante è talmente forte che anche la sinistra ne è influenzata, non si parla più di diritto al lavoro: condividere il mondo significa dare a tutti quanti la capacità di essere creatori. Non si può dire: sbrogliatevela!, ai duecentoventimila giovani della Calabria, andate in America, siate mobili! Apritevi all’economia mondiale! Perché vuoi restare nel tuo Paese? Tu sei della Locride, del villaggio di Conversano in Puglia, vai in Cina, vai in India, diventa un informatico a distanza nelle periferie di Città del Messico! Be modern, be competitive, be active! E allora bisogna dare la capacità di creazione, di lavoro, di occupazione, di essere creatore remunerato.

Quali sono oggi le scelte per permettere a tutti di avere lavoro?

Oggi si sviluppano sempre di più i lavori dell’economia detta non formale, ma perché dobbiamo non formalizzare l’economia? Perché dobbiamo dire che per accogliere bene qualcuno con un sorriso in ospedale, devono essere i più deboli che lo fanno? Chi ha detto che per accogliere con un sorriso la gente che va all’ospedale deve essere il volontariato a farlo? Per me, dichiara illegale la povertà significa affermare il diritto al lavoro e il diritto al reddito. Cioè riaffermare i diritti, ad essere creatore come produttore di beni, servizi, ecc. l’economia dice: io non sono più in grado di dare l’occupazione a tutti; i dominanti dicono che voi vi state moltiplicando troppo, come dei conigli, non moltiplicatevi! Perché sennò a chi li diamo tutti questi lavori? Intanto, con le macchine possiamo fare quello che prima si faceva con il lavoro; nel 1951, per fare un’auto Fiat ci volevano 118 operai: oggi ci vogliono sei, sette operai; per un milione di automobili, prima ci volevano l’equivalente di 118 milioni, oggi ne bastano l’equivalente di sei milioni: dove vanno l’equivalente di 112 milioni di persone? Se per fare questo computer ci vuole sempre meno gente, questa è un’economia che non dà lavoro, perché rimpiazza il lavoro con le macchine e altri processi. Allora, diritto alla creazione, diritto a un reddito di esistenza, diritto all’accesso ai beni essenziali insostituibili per la vita: aria, acqua, igiene, salute, educazione, conoscenza. Non si può scaricare sulla responsabilità individuale il fatto di avere la possibilità di accesso. Quello è il vivere insieme, quello è la società: è la società che si occupa di fare condutture per l’acqua, di fare le strade; prima invece, quando non era la società, ma c’era i ricchi e gli schiavi, era il padrone che si faceva la sua strada per sé: la città è diventata città perché c’è stata la responsabilità collettiva che faceva le strade, che faceva i ponti, le scuole, gli ospedali. Ecco che siamo diventati una società buona: non si può dare alla responsabilità individuale il potere d’acquisto per l’accesso all’aria, all’acqua, alla conoscenza, alla salute, all’igiene… invece oggi la tendenza è che se vuoi avere l’accesso all’acqua, tu la paghi; vuoi avere l’accesso alla conoscenza che ti permetterà di dare ai tuoi figli l’accesso all’occupazione, la paghi; d’altronde nessuno va più all’università di economia, tutti vanno alle scuole Bocconi, non si studia più l’economia, si studia management, o business administration. Allora non si può condividere questo mondo, perché questo mondo non fa altro che aumentare le divisioni, e quindi bisogna affermare la sicurezza del vivere per tutti, contro i rischi e gli incidenti della vecchiaia. La grande conquista sociale che è stata fatta nel diciannovesimo secolo e poi portata nella seconda metà del ventesimo secolo in società come l’Italia, la Francia, la Spagna, ecc., è stata appunto il rifiuto dell’individualizzazione del rischio. Sappiamo tutti che il rischio fa parte della vita: però dov’è stato il concetto del vivere insieme? Il rischio di cadere ammalato, di avere il cancro, di diventare vecchio, ma la società crea le condizioni per impedire che il rischio diventi fonte di miseria. Non si può eliminare che tu abbia le malattie, ma si può far sì che la tua malattia non diventi fonte di miseria, far sì che la disoccupazione non ti faccia uscire fuori dalla società come oggi succede, ma prima era così. Oggi c’è il ritorno della grande povertà anche da noi, perché anche coloro che sono ricchi, che stanno bene, se fanno uno sbaglio e perdono il lavoro, poi non trovano nulla e cascano nella povertà anche loro. Quante storie sono state ricostruite dagli studi che dimostrano che non c’è più preservazione dal cadere nella miseria in funzione del ceto sociale, anche chi ha un grande reddito in cinque anni puoi andare nella miseria più totale, perché ormai i meccanismi di anticorpo che permettono alla società di evitare che il rischio si trasformi in esclusione, non ci sono più.

Il secondo punto è che non si può condividere il mondo se non c’è condivisione del potere di partecipazione alle decisioni in materia di allocazione delle risorse disponibili sul piano nazionale, nel quadro di una architettura politica mondiale cooperativa, solidale, rispettosa dei diritti dei più deboli e delle minoranze. Vale a dire, non si può condividere il mondo, se non abbiamo ciascuno la capacità del diritto alla propria narrazione: e la propria narrazione, multipla, che rispetta le altre, è condizione per poter partecipare alle decisioni. Se voi non condividete lo stesso codice linguistico, non potete partecipare alle decisioni. Quindi l’idea della libertà, contro il potere autocratico, che è sempre stato una delle fonti principali del progresso dell’uomo: cioè io voglio esser libero perché voglio partecipare alle decisioni, perché non penso che io posso esser degno di essere creatore della mia storia collettiva insieme agli altri, se non partecipo: se no, io subisco. Da qui il concetto di democrazia, cioè il potere del popolo, di tutti: il popolo non mitico, ma il popolo composto dai cittadini. Ecco perché la dinamica popolo-cittadini è estremamente difficile e importante, perché un popolo che non sia fatto di cittadini non è la democrazia; e i cittadini, che non siano fatti popolo, non è democrazia, perché se i cittadini non fanno popolo significa che alcuni sono cittadini e altri no. Ecco perché il principio di democrazia si basa non solo sul diritto di ciascuno di essere cittadino, ma si basa anche sul principio dell’autodeterminazione dei popoli, cioè c’è un soggetto giuridico e politico che è il popolo. Ma il popolo diventerebbe autocratico e monolitico e monocratico, se non è fatto di cittadini: ecco perché i cittadini devono partecipare. Quindi ecco perché oggi è necessaria la democrazia partecipata, perché abbiamo costatato che c’è stato l’esproprio dei cittadini da parte del popolo: i cittadini non sono più partecipanti, perché il popolo è stato codificato nella nazione, nello stato, nel mercato; quando si nega il cittadino dicendo: il mercato, c’è il popolo che è il mercato, ma non c’è più il cittadino. Quindi condividere il mondo significa che tutti devono essere cittadini, sei miliardi di persone nel mondo.

Ma per non restare nella retorica, come si fa per far sì che i sei miliardi siano cittadini?

A mio parere, siamo obbligati a fare di tutto per rigenerare anzitutto la democrazia rappresentativa, che è stata annichilata, spappolata, non ci crediamo più: non crederci più significa andare dritti contro il muro. Non possiamo pensare di vivere, se non crediamo nella democrazia rappresentativa. Non è possibile partecipare se non si crede nella democrazia rappresentativa. E qual è il luogo privilegiato della democrazia rappresentativa? È il locale, è il municipio, è la comunità, la collettività: è lì dove testiamo la nostra capacità di essere cittadini. Dunque l’importanza dei nuovi movimenti per il nuovo municipio, per riaffermare che siamo cittadini a livello della città, come luogo privilegiato del vivere insieme. Ed è la città dove si fa la sicurezza collettiva, è nella città dove si trova l’occupazione, è nella città dove si abita, è nella città dove siamo mobili, è nella città dove si consuma, è nella città dove ci si va a educare, è nella città dove ci si cura negli ospedali, è nella città dove si pensa, ci si diverte, ci si ammazza: ecco il ruolo della città, non come territorio indefinito, ma come territorio che manifesta delle identità, per cui riscoprire le identità territoriali attraverso la partecipazione alla vita della città diventa fondamentale per ogni forma di rigenerazione di democrazia rappresentativa. È questa identità territoriale che passa per la città è importante, perché la città è il nervo di se stessa e di un territorio identificabile ma aperto, perché la città è parte delle reti. Ed è attraverso la città che ci può essere un equilibrio tra il locale e il mondiale, tra il residenziale e il mobile, tra il definito e l’indefinito. La città oggi è il perno fondamentale, per cui condividere il mondo significa condividere la narrazione della ricostruzione delle città. Non per nulla, quando si pensa alle innovazioni, pensiamo soprattutto alle città innovative: Modena, Parma, Milano, Bari… o le piccole città o i villaggi dell’India; e quindi solo attraverso questi processi di rigenerazione di democrazia rappresentativa locale si può pensare a rinnovare la democrazia rappresentativa nazionale, e poi inventare le forme di democrazia rappresentativa internazionale. Ed ecco che arriviamo al punto centrale di questo secondo argomento: condividere il mondo significa creare una architettura politica mondiale articolata ai vari territori delle varie comunità umane, che faccia valere i principi delle regole a livello mondiale. Non ci può essere il mondo senza regole; cioè, le regole ci sono, ma sappiamo bene che sono le regole del diritto dei forti, non sono le regole dei forti del diritto. Oggi il nostro mondo ha le regole: il primo fondamentale postulato del mondo è: the american way of life is not negotiable. Punto. E il caso dell’Iran ora, risponde al secondo  principio: nessuno può avere l’arma atomica, salvo io. Perché se ce l’ho io, sono portatore di pace, se ce l’hai tu, sei portatore di guerra, quindi io devo impedirti di averla. E la terza regola, che è legata alla prima, dice che se io ho bisogno del petrolio, ho bisogno delle foreste, ho bisogno d’acqua, io vengo a prendermela, e se tu non me la dai, io ti bombardo. Tant’è vero che si fa già l’ipotesi che fra vent’anni gli Stati Uniti bombarderanno il Canada, se il Canada non vende l’acqua. Pensate che gli Americani consumano dai 600 agli 800 litri di acqua potabile al giorno per persona, e noi Italiani siamo i più grandi consumatori europei, ne consumiamo 258 litri  e siamo già spreconi. E dicono che the american way of life is not negotiable, perché il loro modo di vita è la civiltà, e non si può mica negoziare la civiltà. Ecco che abbiamo il problema di una architettura politica mondiale, che ristabilisca il principio che le regole sono l’espressione della forza del diritto, e non della forza dei potenti, e quindi bisogna vedere se è possibile fare una democrazia rappresentativa a livello internazionale.

Ma tu ci credi ai parlamenti internazionali?

Ce n’è già uno, il Parlamento europeo: rappresenta 480 milioni di persone. Un altro parlamento internazionale è il Congresso indiano: ci sono un miliardo e 100 milioni rappresentati nel parlamento indiano, 600 lingue ufficiali in questo continente indiano. Ma se funziona il Parlamento indiano e il parlamento europeo, perché non potrebbe un domani funzionare un parlamento per sei miliardi di persone? Ed è vero che è distante, già il parlamento italiano è distante; e allora dov’è il potere del popolo? Bisognerebbe far funzionare questi meccanismi di delegazione-rappresentanza: perché l’architettura politica mondiale, come ogni altra, dipende da due grande principi: la rappresentanza e dalla legittimazione. Tutto ciò che noi costruiamo in termini politici, dipende da questi due fattori: chi rappresenta chi; la rappresentanza è buona o no? E poi, se la rappresentanza funziona, c’è il processo di legittimazione del potere, perché un potere che non è legittimo non può imporre la forza del diritto; un potere legittimo ha la forza del diritto. Ecco che se è legittimo rappresenta, e se rappresenta è legittimo. Dobbiamo quindi rispondere a questi due problemi: possiamo concepire una architettura politica mondiale fondata sul principio della rappresentanza e della legittimazione? Oppure, come dicono molti Indiani, ciò che conta è la comunità del villaggio? E dicono: partiamo dall’altro postulato; invece di partire da tutte queste democrazie rappresentative, locali,. Nazionali,  internazionali, partiamo dalla democrazia partecipata. Partiamo dal municipio, dalle collettività locali: allora cominciamo a discutere di bilanci, dell’acqua, della terra, delle strade, degli ospedali… anche questa non è una cattiva via: anche questo è importante. Allora, se siamo di fronte a questi due grandi poli, democrazia rappresentativa e democrazia partecipata, tutto il problema è il sistema finanziario: ecco perché, se non ci sono le Casse di risparmio locali, non c’è democrazia partecipata locale. E se non ci sono banche pubbliche, una Cassa depositi e prestiti pubblica, regionale, nazionale, mondiale, non c’è né democrazia partecipata né  democrazia rappresentativa. Certo, più c’è democrazia più si può pensare forse ad avere un sistema finanziario pubblico.

Che cos’è questo sistema finanziario?

È un sistema nel quale ci sono tanti attori e tante procedure, che permettono a una società di raccogliere risparmio, cioè la ricchezza prodotta, per investire di nuovo in attività di produzione di beni e servizi: prende il risparmio da una parte, e lo dà a chi ne ha bisogno per investire. Se però non ci sono questi meccanismi, se non ci sono i meccanismi pubblici che raccolgono il risparmio locale per dare orientamenti agli investimenti. Il sistema finanziario deve definire cosa deve crescere e cosa non deve crescere, e dove deve crescere, e come; ma non è la Banca mondiale, o la Banca centrale europea o gli azionisti della Cassa di risparmio che possono dire questo: ecco allora il ruolo della rappresentanza, il ruolo del politico. È il politico che deve indicare gli obiettivi, e poi sta ai meccanismi finanziari di operare il trasferimento tra risparmio e investimenti. Ecco allora che abbiamo bisogni di reinventare tutto il sistema finanziario: non c’è architettura politica mondiale se non c’è un nuovo sistema finanziario mondiale.