Creare luoghi di incontroPaola Sartori, funzionario del Comune di Venezia e responsabile del Servizio Infanzia e Adolescenza, porta un’esperienza diretta e ci dimostra che nelle dinamiche interazionali un impegno costante e il rispetto dell’altro nel lungo periodo hanno dei buoni risultati Dott. ssa Sartori, chi si incontra e per fare cosa? Ci si incontra davvero o soltanto ci si sfiora? Da anni mi occupo di infanzia e di adolescenza. L’obiettivo che mi sono posta, insieme ad alcuni colleghi e collaboratori, era quello ambizioso della creazione di reti solidali di supporto reciproco nel campo dell’educazione. L’elemento di partenza da cui non possiamo prescindere, infatti, è che una città che educa deve promuovere inclusione e senso di appartenenza. Con la fine dello Stato Sociale in città le persone erano sempre meno in grado di incontrarsi: negli anni ‘90 Venezia si configura come un luogo diviso tra terra e acqua, frammentato. Diventa una città di immigrazione da posti vicini e lontani. Non solo. Le generazioni dei “nuovi”immigrati, che non hanno ereditato legami, ma hanno dovuto crearseli, si scontrano con le generazioni dei “vecchi”. Fortissime le divisioni sociali. Venezia, in splendido isolamento per una sua naturale configurazione morfologica, diventa culla di più culture, si fa policentrica: tali caratteristiche rappresentano certamente una risorsa. Tuttavia, i rischi che si corrono sono altissimi: in primis, separatezza e disgregazione. I tessuti sociali presenti sono molto diversi: arrivano altri stranieri, tra loro stranieri e portatori di modelli di vita diversi. Condividere qualcosa è sempre più difficile. Nutrirsi dell’altro, ma grande difficoltà a condividere le proprie fatiche. Come può una città attraversata da questi sentimenti contrastanti diventare modello di educazione? Certamente creare luoghi di incontro e gruppi di supporto non basta per far sì che la partecipazione cresca. Non sono sufficienti le proposte, laddove la paura e la diffidenza sono tante. Il confronto è difficile anche per le persone particolarmente sicure di sé. Pertanto, la soluzione adottata è stata quella di andare nelle loro case, di recarsi nelle loro piazze. Gli operatori dei servizi diventano mediatori sociali, per fare in modo che le difese si abbassino. Gli incontri devono essere brevi e poco impegnativi, apparentemente casuali. Si è cominciato a lavorare intensamente ad un tessuto creato da piccoli apostrofi di fiducia, per far uscire le persone dal bozzolo difensivo e riattivare la comunicazione. Per attivare questo lento e graduale processo il minimo comune denominatore deve essere l’interesse per l’educazione. Incrociando punti di vista differenti, cucendo le differenze, dopo averle valorizzate. L’esperienza viene messa in comune, viene assemblata proprio come una coperta colorata fatta di tante stoffe diverse. Dopo 10 anni questo metodo è stato interiorizzato, è cresciuta la fiducia nell’incontro con gli altri. Gli immigrati diventano più attivi, passando da dietro le quinte al ruolo di protagonisti: ciò comporta anche la possibilità di individuare le offerte della città, e quindi di viverla. Quali sono gli obiettivi auspicabili per una città che educa? Sicuramente diventa importantissimo curare di più la parte della rete, delle relazioni e bisogna farlo porta a porta, con pazienza, senza essere mai troppo invadenti e assecondando i tempi altrui. (Annalisa Perrone)
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