Le città di Perugia

 

LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI MARCELLO CATANELLI E FABRIZIO RICCI, LE CITTÀ DI PERUGIA (ERA NUOVA, PERUGIA 2005), È STATA L’OCCASIONE PER UN APPROFONDITO E APPASSIONATO DIBATTITO SULL’IDEA DI CITTÀ E SUGLI INDIRIZZI DI DEMOCRAZIA, PARTECIPAZIONE E SOSTENIBILITÀ CHE DEVONO GUIDARE LE SCELTE PER IL FUTURO. RIPORTIAMO QUI I DUE INTERVENTI DI APERTURA.

 

Raffaele Rossi

La città o è democrazia, o è anticittà

La questione urbana acquisisce sempre più una centralità enorme, tanto che, come è stato detto, si va identificando con la questione umana; il grande storico della città, Lewis Mumford, diceva: “La città era simbolicamente un mondo, e il mondo era una città”.

Io penso che questa nostra città, la città del passato, fu crocevia dell’Italia di mezzo: nel lontano  Due-Trecento, i cronisti parlavano delle tre più importanti città dell’Italia di mezzo, che erano Firenze, Perugia e Siena. Però la città non è fatta solo di mura, di chiese, di strade, di palazzi, ma è fatta soprattutto di persone; cioè, Giovanni Botero nel Seicento diceva: “La città non è solo  il giro delle mura, è la possanza degli abitanti”, cioè la loro capacità di creare valori. E il medioevo comunale, a Perugia, lo si può definire veramente per Perugia il ventre della madre, come dice Le Goff: noi oggi, ancora nel Duemila, viviamo negli stessi spazi di allora, di una operazione urbanistica eccezionale, che ridefinì la città etrusca, che creò la città nova, creò i rioni, creò un patrimonio all’insegna dell’utile e del bello; ecco, la funzione della città di Perugia, per tutti i secoli successivi, ed anche per la nostra realtà di oggi, nasce da lì.

Ed io allora penso agli uomini che c’erano dietro a queste cose. Stavo pensando agli episodi delle banlieus parigine messe a fuoco: con tutte le differenze del caso, ci sono delle questioni di tipo generale. La prima, intanto, è che la città non è stata mai aclassista, è fatta di ceti e di classi diverse, anche in contrasto forte tra di loro; la seconda, la città è governo dei conflitti, perché se ci sono gli esclusi, se la guida non riesce a portarli ad unità, a far sì che tutti partecipino alla definizione della città, allora arrivano i guai, cioè la città o è democrazia, o è anticittà.

Ma la rinascita urbana del Due-Trecento, di quella seconda metà del Duecento di cui Aldo Capitini diceva: “Perugia nel Duecento ha dato più che può”, fu possibile perché tutte le energie furono messe in campo: quelle economiche dei mercanti, dei banchieri, quelle degli studiosi del diritto della nascente Università, gli artigiani, il popolo minuto, secondo quella formula bellissima: governare a popolo e libertà. Io mi sono sempre interrogato perché Perugia aveva allora quarantaquattro corporazioni: non c’è città dell’Italia centro-settentrionale, nella quale si manifesta in quel Due-Trecento la rinascita urbana, che abbia un numero così alto di corporazioni; Firenze arriva a venti; perché tante a Perugia? Perché Perugia aveva un’impostazione più democratica del proprio governo, si dava diritto e voce anche ai mestieri più umili.

Ecco allora la domanda che nasce, e che viene fuori anche nel libro: qual è il grado di partecipazione dal basso della città e dei quartieri? Il problema è di combinare democrazia elettiva e democrazia diretta; i pubblici poteri sono legittimati dal voto, poi però deve esserci l’attore collettivo, cioè l’insieme delle forze che partecipano, non a posteriori, a cose fatte, ma che intervengono sulle decisioni prima che le cose vengano fatte.

Le “Perugie” di cui parla il libro fotografano la realtà di oggi, che è fatta di separatezza, ma direi anche di alterità. Negli anni Ottanta io elaborai un’altra formula, La più grande Perugia, per affrontare i problemi delle aree della nuova urbanizzazione: formula formalmente unitaria, che però teneva conto della mutazione che dagli anni Cinquanta-Sessanta in poi questa nostra città, che da compatta era diventata diffusa, frammentata, quando si era rotto il rapporto città-campagna ed era nato un nuovo modello di città policentrica e non unitaria. Allora si pensava che si potesse fare una riflessione compiuta delle vicende che avevano preceduto la frammentazione e si potesse definire un processo unitario non ricercando una impossibile unità fisica della città, ma una unità che fosse fondata sulla qualità della vita urbana e sulla democrazia. Era la fine dell’iper-centralismo della città.

Che cosa è successo durante questi anni? Leggendo il libro, si può dire che le zone di nuova urbanizzazione sono andate avanti dal punto di vista della qualità sociale, per merito di tanti cittadini, di tante associazioni; il centro storico invece è arretrato dal punto di vista della vita sociale. Il concetto di periferia è totalmente cambiato, si è “spalmato”  su tutta l’area che stiamo esaminando, anche sul centro storico: quindi noi abbiamo una realtà in cui c’è meno città dal punto di vista della qualità sociale, meno campagna e più periferia.

Nei “banali” anni Ottanta, si sono contrapposte e confrontate due culture, che sono sempre attive: quella, in parte residuale, che pensava lo sviluppo per lo sviluppo, e che non ha tenuto conto del senso del limite per quel riguardava l’ambiente, sia urbano che rurale, e quella che invece ritiene possibile coniugare la tutela di valori urbani e naturali con le società progredite. Ci sono spinte e poteri economici forti, nel nostro Paese, che hanno voluto la cementificazione delle nostre marine, degli argini dei fiumi, la moltiplicazione delle autostrade, la distruzione di ambienti naturali e paesaggi; e ci sono forze che lavorano per contrastarle. Contrastare con la denuncia, ma anche con idee e con progetti.

Ma la questione fondamentale è che da tutte le idee e proposte del libro venga fuori una certa idea di città: allora, il confronto e lo stimolo che viene richiesto, prima ancora che sulle singole questioni, dovrebbe affrontare questa questione, di quale idea di città parliamo.

Quindi tante proposte, ma sarebbe interessante dire che cosa dev’essere Perugia nel futuro; e l’altra questione che ho detto, l’attore collettivo, perché la città, lo ripeto, o è democrazia o è l’anticittà.