Quando
una città è sostenibile? Perugia,
Sala della partecipazione della Provincia, 12 dicembre 2003 Vivibilità ed edificabilitàMarco Paganini:
Questo incontro, organizzato dalla rivista “risonanze”, è il secondo
dopo quello del maggio 2002 su “Culture locali e democrazia
partecipativa”. Questo di oggi è dedicato alla sostenibilità della
città, in tutte le accezioni del termine, soprattutto per capire quando e
come una città è sostenibile, e se Perugia lo è, e se le città
dell’Umbria possono fregiarsi di questo riconoscimento. Un tempo, il
discorso della sostenibilità veniva applicato soprattutto a questioni
ambientali: era sostenibile una produzione, un modo di consumare e anche
di vivere che fosse in qualche modo ecocompatibile, che non andasse ad
intaccare il territorio, ad inquinarlo: ora è forse opportuno occuparsi
di sostenibilità in termini umani, cioè in termini di vivibilità delle
città. In questo Perugia rappresenta un esempio abbastanza interessante
perché pur essendo una città non grande si trova spesso visibilmente
impantanata in uno scontro che vede da una parte la vivibilità e
dall’altra l’edificabilità. E mentre una volta c’era un’immagine
un po’ romantica del “cuore verde d’Italia” di cui Perugia era la
piccola capitale, ora questa immagine va sfumando perché vengono portate
avanti delle scelte che tanto sostenibili non sono, soprattutto in tema di
urbanistica, di viabilità e di mobilità, e si va a intaccare la qualità
della vita di tutti i cittadini. E questo ha delle conseguenze sociali
molto importanti. Esempi concreti di scelte non sostenibili li vediamo in
piazza del Bacio a Fontivegge, i progetti di Pian di Massiano dove in
un’area verde importante per tutta la cittadinanza si propone di
costruire uno stadio più grande, uno stadio del nuoto, il palazzetto del
ghiaccio, per cui in pratica si trasforma un polmone verde importante in
una sorta di area industriale, solo che invece che grossi capannoni ci
saranno grossi impianti sportivi e quindi probabilmente con relativi
grossi parcheggi e grosso traffico veicolare e quindi il verde sparisce.
Queste sono scelte insostenibili sia per la città che per chi nella città
vive. Quindi, la questione di come può una città essere sostenibile
forse è già troppo tardi per affrontarla perché alcune scelte non
sostenibili hanno già compromesso la vivibilità di alcune zone della
città; e prima di ritrovarci nella situazione di alcuni quartieri di
Napoli dove è stato necessario intervenire con la dinamite per recuperare
alcune ferite urbanistiche, è bene porsi alcune domande su come una città
possa svilupparsi in armonia con il suo tessuto sociale e il suo
territorio. Progettare in piccolo, pensare con i piediRenzo Zuccherini: Comincerò citando una frase di Calvino, che non si riferisce proprio alla città però ci dà un’idea della mobilità oggi; Calvino parla del viaggio, e dice che “oggi viaggiare è il contrario del viaggio. Viaggiando attraversi una discontinuità dello spazio, sparisci nel vuoto, accetti di non essere in nessun luogo, per una durata che è anch’essa una specie di vuoto nel tempo: poi riappari in un luogo, e in momento, senza rapporto col dove e col quando in cui eri sparito”. Si riferisce al viaggio, però è quello che accade rispetto all’uso che si fa della città: la città viene attraversata, si parte da un posto e si arriva in un altro e la città non è lo spazio in cui si vive, quanto il posto che viene attraversato, possibilmente in macchina, per andare da un’altra parte. È un’idea di città abbastanza recente: non un luogo, ma un modo per attraversare; ma se fosse così, non si capisce perché dovrebbe continuare ad avere le vecchie strade medievali, strette e scomode: forse sarebbe meglio spianare tutto, perché per andare da un posto all’altro si fa prima se si hanno strade larghe e dritte. Per questo, come rivista, l’idea su cui abbiamo cominciato a lavorare è quella che la città è “un luogo”, che perciò non è il non-luogo che semplicemente si attraversa ma il posto in cui si realizzano relazioni, in cui si sta, oltre che passarci. Certo le strade servono anche a spostarsi, ma devono servire anche a starci, è necessario che uno ci si fermi, e se ci si ferma ci si vive, ci si “abita”. E “abitare” una città, piuttosto che utilizzarla, sfruttarla, e trarne il massimo profitto come spazio e come tempo, è un’idea su cui bisogna lavorare molto. Può darsi, come diceva adesso Marco, che per certe cose è un po’ tardi: c’è un dubbio anche nel titolo di questo nostro incontro di stasera, il quando: quando una città è sostenibile?, che si riferisce a quali sono le condizioni per cui una città può essere sostenibile, però forse può voler dire anche: ma quand’è che finalmente questa città potrà essere sostenibile? In questo c’è anche l’idea della capacità di lavorare sul tempo, di saper aspettare. Da qui il tentativo della rivista di lavorare sull’idea di città, di rispondere alla domanda: che cosa è una città? naturalmente senza pretendere di rispondere adesso. Una città può essere tante cose: può essere una esposizione di merci, una concentrazione di luoghi di mercato in cui gli abitanti sono soprattutto clienti e tutto è “merce”, compresi gli spazi di uso pubblico, che sono resi funzionali alla compravendita. Può essere un insieme affastellato e caotico di luoghi in cui le funzioni sono puramente casuali, per cui si costruisce una chiesa, o una piscina, e va bene un posto qualsiasi, tanto un posto è uguale all’altro. Questa non è certo l’idea storica di città, per cui la città si costruiva mano e mano e i vari luoghi, che rispondevano a varie funzioni, erano in relazione tra di loro: c’era un centro, o tanti centri, e intorno a questo centro si sviluppano delle relazioni, per cui la chiesa ha senso in un luogo anziché in un altro, e così la scuola, e le botteghe… Oggi questo lo perdiamo. Citavo non a caso la piscina, perché in questi giorni c’è una polemica riguardo ad una piscina costruita a Ponte Felcino a ridosso del parco e del fiume, ma che non entra in relazione con il parco né con il fiume, ma che ha fatto una specie di sbarramento, un parcheggio ed un muro, che la separa decisamente dal parco; naturalmente il parcheggio è piccolo per cui bisogna ingrandirlo a scapito di una vecchia stradina campestre… Temo anch’io che finirà col vincere il parcheggio, non solo perché le pressioni, le spinte, le mediazioni vanno in tale direzione, ma soprattutto perché l’idea del luogo, l’idea di costruire intorno al centro (di Ponte Felcino) una serie di relazioni entro cui si può collocare la piccina, questa idea manca. C’è l’idea di fare un’altra cosa, una cosa in più per avere più movimento economico, ma manca l’idea che una piscina debba stare in relazione con il paese e con il fiume, che uno ci possa andare a piedi: ci sono piscine che sono in questa rete di relazioni, non è impossibile farlo, ed anzi il risultato è senz’altro più gradevole e più attraente per chi va in piscina. Quindi questo non significa combattere gli interessi economici: la piscina è certamente un investimento, deve avere un suo riscontro, anzi sono convinto che questo può essere maggiore se si tiene conto del fatto che lì c’è il Tevere, c’è un parco, che la gente viene più volentieri in una piscina con parco sul fiume piuttosto che in una piscina concepita come un capannone industriale. Manca quindi un’idea di città che sia soprattutto una rete di relazione tra le persone e tra queste e il loro ambiente. Difficile dire cos’è una città: certo è più facile dire che cosa non è, più facile dire quando una città non è sostenibile. Ad esempio una città come una serie di ghetti: la città del commercio, la città del cinema, la città della musica, la città dei giovani, la città degli anziani… Ci sono oggi delle iniziative, anche molto lodevoli, che io apprezzo moltissimo, che riguardano le diverse età, senza comunicazione tra l’una e l’altra: come i centri socio-culturali per gli anziani, le iniziative musicali per i giovani, ciascuna bellissima iniziativa in sé, ma tra loro assolutamente incapaci di comunicare. C’è quindi un’idea frammentata di città, per cui ogni città, pur intersecando le altre, non si parla con loro: ed è una città che viene consumata per un aspetto, senza preoccuparsi degli altri. C’è un legame con l’incontro di anno scorso sulla partecipazione: perché una città che viene consumata, che viene attraversata, che viene usata, ma di cui non ci importa nulla, è una città che non ci appartiene. E allora a chi appartiene la città? Di chi è la città? Se andiamo in giro vediamo questi ragazzi che fanno danni, sporcano, fanno vandalismi: penso che sono ragazzi che sentono di star facendo queste cose in una città che non è la loro, che non gli appartiene, per la quale non sentono nulla; viceversa una città che appartiene a qualcuno, che appartiene alla gente che ci abita, è una città per cui si può provare anche un sentimento di protezione, di attenzione, di cura. Faccio un esempio: se io vengo in città solo la notte per bere birra nei pub, per cui voglio arrivarci alla svelta, piazzo la macchina davanti al locale, faccio tutto il chiasso che mi pare e poi me ne vado: se penso la città solo come a un concentrato di birrerie, uguali a Bastia o Ponte S. Giovanni o dovunque, solo più fitte, un posto con cui non ho nessun rapporto, allora questa non è la “mia” città, il mio luogo. E allora che cos’è che rende “mia” la città? O cos’è che rende mio il quartiere? Cos’è che me lo fa sentire mio? È quindi un concetto molto forte di democrazia, di partecipazione, di impossessamento: un termine che cerca di tradurre l’idea di empowerment. Se io sento come mia la città, se io sono padrone della città, non perché l’ho comprata come forse sta succedendo da qualche tempo, ma perché ne sono in possesso insieme agli altri cittadini, allora anch’io ne prendo cura se chi la governa me ne affida un po’, se mi si dà un compito per cui non sto in città solo per usarla con la macchina, ma ne sono responsabile rispetto a qualche piccolo aspetto. Avrei voluto sentire
stasera Anna Imelde Galletti perché fa un lavoro sui luoghi in quanto
legati a ricordi, i luoghi dove sono state delle persone che hanno fatto
delle cose. Sono luoghi in cui sono vissute delle persone che hanno avuto
una loro storia: questo è un modo per ricostruire l’identità dei
luoghi, e quindi l’identità della città. Questo lavoro è un
contributo importante a riconoscere i luoghi e quindi a ridisegnare la
città, a non pensarla in astratto come a una serie di collocazioni di
servizi, ma a pensarla come qualcosa di più complesso in cui le persone
hanno un ruolo determinante: e quindi bisogna cominciare a pensare i
luoghi a partire dalle persone. Sembra una frase fatta, banale, e invece
siamo nella assoluta rivoluzionarietà, perché in genere si pensa in
grande, si fanno grandi progetti, si disegnano sulla carta dei grandi
tracciati e poi ci si dimentica che ci sono le persone, che ci sono le
colline con i boschi, le piante, le vecchie stradine, ci si dimentica
tutto questo perché bisogna avere le grandi opere, che qualche volta sono
pure necessarie. Forse l’idea che può cambiare questo è di cominciare
a progettare in piccolo, e anche a pensare con i piedi, cioè a pensare a
quei territori anche molto piccoli che io posso raggiungere con i piedi,
dove io posso costruire vicinato, molti vicinati. Una volta il vicinato
era un ambiente chiuso, ristretto, era quello delle comari che stavano
sempre a parlar male l’una dell’altra: ma noi oggi abbiamo molti nuovi
vicinati, oggi possiamo muoverci liberamente, anche grazie all’auto,
abbiamo molti contatti, anche con il telefono o la posta elettronica e
internet: ma possiamo ricostruire una piccola rete di relazioni locali. Se
noi pensiamo questo riusciamo a vedere al di là delle grandi opere,
riusciamo a vedere l’importanza delle panchine che servono alle persone
per avere un minimo spazio. Certo, c’è il parco, ma per andare al parco
bisogna prendere la macchina o altri mezzi; c’è la piscina, il cinema,
ma per andarci bisogna prendere i mezzi, cioè sempre qualcosa che mi
porta in un altro posto. Naturalmente va bene muoversi, andare in altri
posti, ma c’è bisogno anche di ricostruire i posti sotto casa. Una città è sostenibile quando ha una identitàRenzo Massarelli:
Tanti anni fa feci un’intervista a Vinci Grossi, che è stato anche
Presidente della Provincia di Perugia, e chi chiesi (allora non si usava
questa espressione della sostenibilità), se Perugia poteva definirsi una
città a misura d’uomo; e lui, usando le sue categorie della politica,
mi disse: “Ma a misura di quale uomo? Perugia è una città in cui ci
sono i ricchi, i possidenti, se parliamo degli artigiani di Porta
Sant’Angelo, è un’altra cosa; di quale uomo vogliamo discutere?”.
In pratica, ragionava sulla condizione personale di ogni persona, così
come essa la viveva dentro la città. Oggi, per me, una città sostenibile
è una città che ha una propria idea di se stessa, cioè una sua identità.
Quando ha una sua identità, quella è una città sostenibile; quando è
un ammasso di case, di vie, di funzioni più o meno spurie, quella non lo
è. L’identità è la cosa più forte; una città può essere anche
brutta: io da ragazzo ho vissuto in un quartiere di Terni che stava a
duecento metri dalla Fabbrica, e se lo rivedo oggi sicuramente mi sembra
che fosse bruttarello; però io me lo ricordo come un posto vivibile;
Perugia è una città bellissima, straordinaria, lo è da otto secoli, ma
è una città vivibile? È una città che ha una sua identità oggi? Anche
Terni, quando ha perso la sua identità? Quando i suoi abitanti hanno
perso la Fabbrica come punto di riferimento più importante per
l’identità della città, le Acciaierie: c’è stato un momento negli
anni Ottanta, in cui la Fabbrica è apparsa a tutti non più come una
fonte di orgoglio cittadino, ma quasi come una cosa di cui vergognarsi,
soltanto perché era in passivo, era assistita dallo Stato (allora era
delle Partecipazioni statali), l’operaio non era più quella figura
mitica che era stata nel passato; e la città non è stata più se stessa,
e non lo è più neanche oggi: nel frattempo ha lavorato molto sul piano
dell’immagine fisica, sulla ristrutturazione, come una vecchia donna che
si è rifatta il trucco, o la plastica del viso, adesso è molto curata
dal punto di vista urbanistico e edilizio, molto più che non Perugia, ma
nonostante questo una identità nuova non c’è ancora. Oggi è una città
come le altre dove ognuno vive per sé e si arrabatta per le sue cose.
Questo stesso processo in qualche modo è avvenuto anche a Perugia: solo
che qui la fonte dell’identità non era una fabbrica, era il centro
storico; c’è stato un periodo, anche abbastanza lungo, in cui
probabilmente gli abitanti, che hanno sempre visto il centro storico come
un punto d’orgoglio, l’hanno visto però come una cosa che non gli
apparteneva più; c’è stato un momento in cui la gente ha voltato le
spalle al centro storico. E allora che cos’è oggi la città? Intanto
non è più una città, è un agglomerato metropolitano, una città di
provincia che vive dentro un agglomerato metropolitano. Se vai a Ponte
Pattoli senti che parlano con un accento già vagamente altotiberino, se
vai a Castel del Piano senti già l’accento umbro-tuderte, altrove c’è
già qualche inflessione toscana. Che cosa ha in comune uno di Castel del
Piano con uno di Ponte Pattoli? Si può dire che appartengono alla stessa
città? Penso di no. Questo senso di appartenenza forse potrebbe tornare a
funzionare se si tornasse di nuovo a ricollegare tutte le parti della città
con il centro storico. Questa cosa non c’è; e qui nascono i problemi
dell’identità e della città. C’è una frase di Umberto Galimberti
che dice, parlando della globalizzazione: “la globalizzazione concepisce
le città come semplici luoghi di scambi, più che come luoghi di
abitazione: nasce la percezione diffusa che siamo ancora all’inizio di
quel processo irreversibile che traduce le grandi città in agglomerati di
sconosciuti, senza più quel rapporto sociale che creava un rapporto
fiduciario fra gli abitanti del territorio, i quali, se anche non si
conoscevano, sapevano sottostare a quella legge non scritta che era il
senso del destino degli abitanti di quella città. Oggi le città appaiono
come un concentrato di uomini, uno a fianco dell’altro, con l’unico
vincolo del procacciamento del denaro”: le città come luogo in cui uno
va soltanto per guadagnare, che è una delle funzioni della città, come
il mercato, ecc., ma non è l’unica; c’è chi pensa ad esempio che il
centro storico possa essere una specie di Collestrada spostato da
un’altra parte, cioè il centro storico come un grande ipermercato: ma
la funzione fondamentale della residenzialità, cioè di chi ci abita,
viene del tutto dimenticata. Ma noi dobbiamo invece recuperare
l’estetica della residenzialità, il ragionare su come questa ci viene
dal Medioevo ma deve essere considerata oggi al livello delle condizioni
odierne di vivere in una città, una città diversa da altre. Forse anche
per questo la gente se n’è andata dal centro storico: certi dicono che
tornerebbero ma costano troppo le case, eppure quelli che si sono fatta la
villa alla Trinità o a Prepo non è che abbiano speso poco, ma non hanno
investito al centro. Dunque non è soltanto l’aspetto economico che
muove la gente: ma molti oggi non tornano perché non ci sono altre
condizioni: studiare queste condizioni forse significa porsi il problema
della stesa identità della città, come si può oggi
dare alcune opportunità di venire ad abitare in centro. E il
grande problema che sta al centro di tutte le discussioni è far vivere
questa città. Questa città, secondo informazioni che mi danno gli amici
architetti, è la città che cresce in cemento più di tutte le altre in
Italia. Negli ultimi dieci anni si è mangiato un milione di metri
quadrati: è la prima città in Italia, capoluogo di provincia, per numero
di vani sfitti; ce ne sono che ne hanno di più, ma sono città del Sud
che si spopolano: Perugia è la prima città che cresce di abitanti, sia
pure di poco, e che nonostante questo ha un esubero di case sfitte.
È la città d’Italia più costruita e più vuota che ci sia; la
seconda è Rimini, ma Rimini crea le case per l’estate, quando si
riempie. Questa cementificazione un po’ cieca, priva di criteri
estetici, non si capisce a cosa debba servire. La sostenibilità culturale e il policentrismo umbroMiro Virili, Legambiente Terni: Nella ricerca che abbiamo svolto, abbiamo cercato di rispondere alle domande che si facevano qui all’inizio, che sono insite nell’espressione “città sostenibile”; e abbiamo cercato di dare una risposta anche alla domanda “che cos’è una città”. Le risposte non sono facili. Calvino, nelle Città invisibili, dice che ogni volta che parla di una città, parla sempre della stessa città, vista da un punto di vista diverso. Una città è sempre diversa, e varia a seconda dei luoghi, e del processo storico. Noi, come Legambiente, ci eravamo occupati di questo tema a partire dagli aspetti ecologici e ambientali, che erano quelli che ci interessavano come associazione, e abbiamo studiato però in maniera più dettagliata la città di Todi, perché nel 1999 ci è stato chiesto di fare un lavoro sulla sostenibilità e di fornire un modello di monitoraggio sui criteri di sostenibilità. Perché Todi? Perché Todi era stata definita da Levine circa un decennio prima come la città più vivibile del mondo. Si trattava di verificare se Todi era una città vivibile e trovare un modello di monitoraggio da applicare alle varie città. Noi abbiamo fatto questo studio e l’abbiamo approfondito come un percorso per elaborare una serie di punti di base: abbiamo indagato la città e abbiamo indagato la sostenibilità, da quelli che erano i criteri edilizi europei alla carta delle città sostenibili. La prima conclusione è stata innanzitutto che la sostenibilità è a larga banda, cioè non è soltanto ecologica, ma è anche sostenibilità ecologica, sostenibilità economica e sostenibilità sociale. A questo abbiamo aggiunto che accanto alla sostenibilità sociale vi sono due altri elementi importanti che sono la dimensione culturale della città, e la dimensione istituzionale, cioè la forma di governo; e nell’esaminare la città ci siamo resi conto di una cosa fondamentale che è la storia, che oggi spesso si dimentica, e un po’ anche le radici culturali, questo tanto se si tratta della città Perugia che della città Terni, ma ogni città ha un destino, quello che era all’origine, che è quello per cui la città è nata: è stato il territorio che ha creato le città; la città è nata come luogo di mercato, luogo di difesa, luogo di scambio. Nella nostra storia, questo territorio si è costruito nel periodo dello scontro tra Bizantini e Longobardi, per cui ha assunto grande importanza la rete dei castelli, dei centri minori; poi, nell’epoca comunale, c’è stato il rifiorire della città, che ha fatto del centro Italia quel grande esempio di civiltà tanto che poi Levine guardava alle città italiane del medioevo come modello ideale della città vivibile. E oggi la città, anche Perugia che è un comune molto vasto, non è solo la città come centro, ma è anche l’insieme delle frazioni. Quindi la città era ed è ancora oggi, anche se tendiamo a dimenticarcelo, legata al territorio. Per questo il primo principio che abbiano messo in evidenza nel nostro studio è la città del territorio: questa città non è possibile leggerla dal punto di vista della sostenibilità e della vivibilità se non la si pensa insieme al territorio; la separazione di città e campagna è soltanto una separazione fisica: intorno alla città c’erano le mura, ma in realtà le mura nel vivere quotidiano mettevano in relazione. Ecco allora il legame tra ambiente in senso generale e ambiente antropico, sono due modi di vedere la stessa cosa, due parti integranti della realtà: quando si rompe questo rapporto, anche solo nel come noi lo leggiamo: già leggere solo la città senza tener conto del territorio, inteso pure come ambiente, colline, montagne…: vederli divisi è già una componente di insostenibilità. L’altro elemento che abbiamo messo in evidenza nel nostro studio è che normalmente fino ad oggi la sostenibilità era stata studiata (da tutta la letteratura che da decenni si occupa di città sostenibile) prendendo come oggetto solo la grande città, la metropoli: in Italia quindi il riferimento era a Milano, Roma, Napoli, le città per eccellenza; è ovvio che per un cittadino di Milano o di Roma venire a Perugia o a Terni significa trovare la vivibilità; anche sotto il profilo ecologico, sicuramente le città umbre sono più vivibili: noi invece abbiamo approfondito lo studio della vivibilità delle città più piccole, e abbiamo visto che la insostenibilità non è soltanto nel vivere in una metropoli, ma anche nella perdita della cultura della montagna in Umbria, l’abbandono di centinaia di centri storici. Se i centri storici vengono abbandonati, se viene abbandonata la montagna e la campagna, è finita una cultura antica che ha superato i millenni e che oggi non viene mantenuta e la gente va a cercare altre risposte ai suoi bisogni: anche questo è insostenibilità. Il nostro compito quindi, alla fine, è stato quello di mettere a punto un modello di monitoraggio che poi non è altro che una tabella di indicatori per misurare la sostenibilità. E noi abbiamo fatto una tabella solo per misurare la sostenibilità delle città umbre, abbiamo elaborato un modello culturale che potremmo sviluppare soltanto per l’Umbria, un modello culturale che partiva dalla storia umbra e dalla lettura attuale del territorio e si rifa al modello della rete di città e del policentrismo, che si contrapponeva allo slogan della città-regione che andava di moda dieci o vent’anni fa e che era legato al vecchio piano urbanistico territoriale del 1983, che tendeva a vedere la regione come un’unica città, quindi una impostazione centralistica e derivava da quando l’Umbria era un’unica provincia con Perugia, Terni e Rieti fino al 1927, quando fu formata la provincia di Terni con realtà del tutto diverse e lontane come Terni e Orvieto. Noi invece abbiamo cercato di lanciare un modello culturale umbro, che era una regione di città, di comuni, di comunità, una regione in cui non c’è solo la cultura urbana delle città, dell’acropoli, dei municipi più grandi, ma c’è anche la molteplicità dei piccoli comuni, e anche delle piccole comunità di montagna, che vivono ancora degli usi civici che risalgono al medioevo. E tutta questa per noi è sostenibilità in Umbria: se si mette in crisi questa rete, viene meno la sostenibilità; ed è quello che purtroppo sta accadendo. Se, applicando gli indicatori classici che vengono applicati a Roma o a Milano, oggi Todi e alcune città possono essere definite chiaramente città vivibilissime, se invece applichiamo i nostri indicatori che prendono in considerazione anche la sostenibilità sociale e culturale, in questo territorio in alcuni casi ci stiamo allontanando dalla sostenibilità e quindi bisognerebbe riflettere su questo, tant’è vero che nel nostro modello di monitoraggio, oltre a mettere nuovi indicatori rispetto a quelli classici (la quantità di ossido di carbonio nel centro storico, ecc.), nel nostro caso la sostenibilità è quanto una persona si sentiva ancora legata all’identità della città: per esempio chiedevamo se conosceva i nomi dei vicini, se conosceva i nomi dei luoghi, in un paese se la persona che ci abita conosce i nomi dei monti: quindi misurare una serie di elementi per capire quanto ancora una persona è legata al territorio; per esempio anche il dire a una persona dove abita: io per sempio vivo in un piccolo paese, a Piediluco, non a Terni: se qualcuno mi chiede dove abito, io non rispondo Terni, anche se abito nel comune di Terni, io rispondo “Piediluco”; un’altra persona, che magari viene da fuori, risponde Terni. Porre queste domande, relative ad indicatori che sembrerebbero strani, ed invece sono stati apprezzati dallo stesso Levine, ci mostra che a Roma o a Milano non si conosce neanche chi abita nella porta accanto, domandare invece se conosci i tuoi vicini in un paese è importante. Misurare anche quanto si sta perdendo dell’identità di un luogo è anche questo, insieme all’abbandono e alla presenza di istituzioni e di associazioni, ci ha permesso di mettere a punto un sistema per misurare questa sostenibilità. L’ultima cosa, abbiamo
registrato come gli enti o le istituzioni preposte al territorio
rispondevano quando un indicatore dava come risultato l’allontanamento
dalla sostenibilità: era la risposta politica, di governo e di
efficienza. Anche questo è un indicatore, perché se c’è un problema,
e l’istituzione risponde a un’emergenza che sta arrivando o a un
segnale di insostenibilità come l’abbandono dei centri storici, e chi
governa riesce a trovare le risposte, allora è comunque un indice di
andare verso la sostenibilità, se invece non si fa niente allora è un
indice negativo. Il tempo, lo spazio, le persone: dal consumo alla sostenibilitàGabriele De Veris, dell’Agesci. Il mio contributo non si basa su delle analisi, dei dati o degli indicatori: si basa su delle osservazioni legate a come e quando le associazioni, e soprattutto i ragazzi e le famiglie, hanno o non hanno degli spazi nel luogo dove vivono, cioè se ad esempio per partecipare a delle attività che si svolgono qui a Perugia vengono degli Scout da Castel del Piano, oppure se vi partecipano dei ragazzi che vivono nel centro storico. In realtà la situazione è che ormai c’è una partecipazione diffusa, per cui ci sono ragazzi che vengono da varie parti della città ma anche dei dintorni e quindi non c’è più rispondenza tra il fatto che il gruppo abbia la propria sede in un quartiere in maniera così marcata com’era il gruppo di Madonna alta o di San Sisto in cui il 99 per cento dei ragazzi abitava lì: adesso non è più così. Anzi, molto spesso è molto più variegata la provenienza e la partecipazione. Questo si può leggere in vari modi: si può leggere col fatto che non ci sono più ragazzi di quell’età in quel quartiere; o che c’è una richiesta e da altre parti non ci sono risposte alle esigenze di partecipazione. Questo non ve lo so dire perché dovrei avere sotto mano i documenti della composizione dei vari gruppi di Perugia. Quello che invece è abbastanza certo, e su cui c’è abbastanza preoccupazione, è sugli spazi e i tempi. In realtà gli spazi per i ragazzi, e comunque gli spazi per le persone, indipendentemente dalla fascia di età, o dalle attività, sono sempre più limitati: gli spazi comuni, gli spazi pubblici. Cresce il bisogno di partecipazione, e gli spazi invece si restringono; è difficile anche da parte delle associazioni - e qui ci vorrebbe un po’ di autocritica - condividere gli spazi, cioè ognuno ha la sua bella stanzetta, o stanzona, o spazio gigantesco, e se lo tiene ben stretto, anche se magari lo utilizza in maniera molto parziale, e altre associazioni o gruppi devono restare senza locali o riunirsi in maniera molto difficoltosa, e condurre le iniziative in maniera molto difficile, perché non trovano spazi, non trovano i luoghi, che non sono più tanto pubblici perché anche quelli pubblici spesso sono a pagamento e non tutte le associazioni hanno i soldi necessari per permettersi quei locali. Quindi un problema di sostenibilità è questo: quando la vita associata diventa un lusso, allora c’è da chiedersi come mai. Credo quindi che sia un discorso di scelte politiche e scelte di attenzione, su cos’è prioritario rispetto ad altro. Io vedo ad esempio l’esperienza di via della Viola, ormai sto lì da dieci anni, praticamente da quanto da scuola è diventato un centro di vita associata, in parte della Provincia e in parte delle associazioni: nei primi tempi era semideserta, poi pian piano si è popolata, c’è stato un discorso sugli spazi comuni e sugli spazi per ogni singola associazione: e la richiesta è stata sempre in crescendo, però non so quanti spazi così ci sono nel centro storico o nelle vicinanze. E lo stesso per il discorso dei tempi: ci sono dei tempi che sono legati anche al fatto degli spostamenti, al discorso della vicinanza, perché se io dove vivo non ho un luogo dove posso fare una attività, dove non ho un asilo, non ho una scuola, non ho una biblioteca, non ho un cinema, ma sono costretto a spostarmi, devo mettere in conto che per il fatto di avere una multisala a dieci chilometri da casa mia io ci devo arrivare, mi devo spostare. Quindi si crea tutto un flusso di persone che fanno avanti e indietro e che quindi spendono in maniera sempre maggiore il loro tempo in questo spostamento; ma lo spostamento non è un viaggio, un tragitto che comporti una partecipazione, ma semplicemente un consumo del tempo e dello spazio, della strada, e dell’inquinamento. Naturalmente tutto questo comporta anche un allentamento dei legami, la difficoltà delle relazioni, il fatto che, come si sa, chi viene da fuori ha una difficoltà notevole di inserimento, lo posso dire io in prima persona; non è nemmeno un fatto casuale che buona parte di chi opera nelle associazioni e dunque è impegnato socialmente, molto spesso viene da fuori, perché forse quello è l’unico modo di trovare la partecipazione ed entrare nelle relazioni, che altrimenti sono difficili da costruire. Un’altra riflessione è su quali relazioni ci sono tra chi studia a Perugia e Perugia, al di là del fatto di offrire infiniti locali, infiniti pub, infiniti negozi. Un anno fa ho fatto un rilevamento, cioè vedere su Corso Vannucci e le vie limitrofe che cosa si trova camminando: portoni di abitazioni, sportelli bancari, negozi, bar, ristoranti, ecc.: ebbene, se provassi a fare questa cosa ogni sei mesi troverei magari un ricambio di vetrine, ma una impressionante similitudine di soggetti, di luoghi, sempre più uguali: negozi di abbigliamento, bar, banche, e poco di più. Ad esempio non ci sono più negozi di ferramenta. Comincia ad assomigliare tanto, forse esagerando un po’, ad un centro commerciale distribuito sul cosiddetto salotto buono e niente di più. Queste sono riflessioni non solo personali ma legate anche alla partecipazione alle associazioni, ed al discorso stesso dello scoutismo, perché gli scout non sono solo quelli che fanno attraversare la vecchietta e basta, o vanno a fare le passeggiate nei boschi: hanno dei progetti educativi, cioè il posto dell’attività è in relazione al luogo dove vivono, ed il fatto di avere una sede in un certo posto non è solo il fatto di avere uno spazio qualsiasi dove i ragazzi possano giocare, ma è il fatto di partecipare alle relazioni del luogo. Quindi periodicamente vengono fatti dei progetti di attività proprio in relazione al luogo e alle persone. Anche perché le persone cambiano, gli stessi ragazzi crescono, e nel giro di tre anni in un quartiere arriva una comunità cinese di cento persone: questo non può non lasciare il segno, non può non essere considerato. Quindi sono tutte riflessioni che forse vengono esternate poco, vengono poco condivise con altre associazioni, e anche con le istituzioni: però di fatto queste sono le cose su cui si va a ragionare per le attività quotidiane. Ad esempio, che relazione hanno gli studenti con il luogo dove vivono, al di là se vivono in un buco o in una stanza o in un appartamento condiviso con altri studenti e pagato a caro prezzo, rispetto magari a degli anziani che non hanno possibilità di andarsene, di scappare, dal centro storico, e che non hanno nessun tipo di relazione con questi ragazzi che sono diventati vicini di casa; è il discorso di una grave frattura fra generazioni, che magari in altre città o in altri contesti hanno in qualche modo considerato e che hanno ricevuto delle risposte. Forse, quello che manca è un discorso di sobrietà: ricordo di avere letto qualche anno fa che a Perugia c’era il progetto di farne una megalopoli rispetto a quanto è grande l’Umbria: una città da duecentomila abitanti, senza considerare il territorio circostante, quindi una cementificazione enorme; ora si sono un pochino ridotte le mire, forse, però cercando di spingere su consumi come quelli offerti da infiniti bar e infiniti negozi, che la dice lunga rispetto alla disponibilità di spazi dove le persone possano incontrarsi e parlare, ragionare, senza dover esser costretti ogni volta a consumare. Mi piacerebbe ad esempio che ci fosse una maggior attenzione, perché ce n’è la possibilità, sulla questione delle energie pulite: immaginiamo, senza fare salti troppo arditi, se perlomeno su tutti gli edifici pubblici ci fossero installati i pannelli solari, e non solo per alimentare parcheggi a pagamento; dove ci fossero degli spazi disponibili alla gente, e non solo dei parcheggi; dove ci fosse magari più vigilanza e meno vigili: vigilanza vuol dire appunto il discorso della partecipazione, del sentire che il luogo dove uno vive è comunque qualcosa che appartiene a me come appartiene alla persona che ho di fronte; e, sempre in tema di sostenibilità, mi piacerebbe che non solo gli enti pubblici, ma anche tutte le forme di vita associata, dalle parrocchie alla diocesi alle associazioni, dicessero una volta all’anno come spendono i soldi che ricevono; ma non in grandi capitoli, del tipo: noi per la cultura spendiamo dieci miliardi, perché io posso spenderli anche per fare dieci miliardi di cartoline in carta patinata; ma un bilancio partecipato dove la gente possa capire effettivamente come vengono spesi i soldi, e su cui possa anche dare un parere che venga preso in considerazione. Un bilancio, in tema di sostenibilità, non basato semplicemente su entrate e uscite, ma su un concetto un po’ più alto, cioè su un tipo di economia basata sulla sostenibilità e non solo sul profitto, o solo sull’interesse meramente commerciale, anche perché - e questo lo stiamo vedendo e lo vedremo ancora di più - poi si finisce per considerare che il parco o i giardini pubblici in fondo sono solo una spesa perché poi bisogna mantenerli e non producono, oppure i servizi sociali che magari sono una spesa ma non si pensa invece a quanto è il guadagno in termini sociali; che magari conviene avere degli spazi dove le associazioni fanno della attività piuttosto che avere cinquemila telecamere che controllano per sapere chi ha manomesso i cassonetti o ha aggredito qualcuno, e pagare dieci persone per guardare le telecamere. Serve una concezione un po’ più ampia rispetto al senso del bilancio, rispetto a un profitto o meno e per chi. Marco Paganini:
Questo passaggio sulla sicurezza è molto importante, perché per ora la
risposta che si dà è quella di stendere a macchia di leopardo la rete di
sorveglianza, quando invece in zone come a partire dal centro storico ad
arrivare alla piazza del Bacio dimostrano che questa rete non serve: il
Duomo è ormai circondato da telecamere, più o meno esposte, ma penso che
sia chiaro a tutti che lì spacciano, indipendentemente dalla presenza
delle telecamere; e in piazza del Bacio è prevista l’installazione di
cancellate, di telecamere, ma lì la notte continuerà a non esserci
nessuno perché è una piazza impossibile da vivere, una piazza in
discesa, con in mezzo il muro della fontana per cui non si possono fare
neppure gli spettacoli: d’estate cemento rovente, ghiacciato
d’inverno, anche con le cancellate non ci andrà nessuno che non siano
gli attuali frequentatori, perché non c’è niente di vivibile. E qui
veniamo alla questione degli spazi pubblici e degli spazi sociali che non
siano finalizzati al puro consumo. La condivisione dei progetti, degli spazi e delle competenzeRobert De Graaf,
Cantiere X-Lab: Premetto che io sono abituato a dire pane al pane e vino
al vino, e ho scelto di vivere a Perugia, non ci sono nato, avrei potuto
vivere in altre città, infatti sono nato e cresciuto ad Amsterdam, ho
vissuto due anni a Londra, un anno negli Stati uniti, quindi i posti da
scegliere ce n’erano tanti al mondo: io ho scelto di stare a Perugia.
Questo vale come dimostrazione che voglio un sacco bene a questa città,
ma ciò non di meno sono pieno di note critiche su una città che ho
trovato anch’io chiusa, proiettata sul passato, poco propensa ad
accogliere veramente, si batte sempre il petto, infatti ogni volta che
senti un amministratore perugino parlare ad un convegno, parla di una città
accogliente, “perché abbiamo l’Università per stranieri, a Perugia
vivono diciottomila stranieri e sono accolti bene, a Perugia c’è
l’Università, trentacinquemila studenti”. Bene, fattelo dire da uno
straniero che lavora tutti i santi giorni, anche con soggetti stranieri,
studenti da fuori, non è affatto vero. In tredici anni che vivo a Perugia,
io sono vissuto in quattordici case diverse, non perché non mi stavano
bene, non perché ero antipatico al proprietario o viceversa, ma perché
è così a Perugia: ti trovi la scelta tra un sottoscala o una stanza
magari da dividere con due o tre altri, perché tanto è grande,
descrivono come spaziose e luminose delle stanze che hanno una finestrina
dalla quale non puoi nemmeno affacciarti. E’ questa l’accoglienza di
Perugia? Non guardiamoci storti quando uno dice una cosa del genere: è un
dato di fatto. Io ho affittato, nei primi mesi a Perugia, da una contessa,
una casa che lei descriveva come un delizioso miniappartamento: guarda,
nemmeno il mio gatto ci metterei più, e l’ho pagato caro, perché ci
volevo stare a Perugia, a parte che stavo con una Perugina, la città mi
piaceva, era a misura d’uomo, dopo Londra, dopo Amsterdam una città a
misura d’uomo, con abbastanza gente per non sentirsi soli, con
abbastanza cultura per trovare ogni sera qualcosa da fare: il cinema, il
teatro, mangiare bene, ecc.; ci si poteva trovare bene, però a conoscere
meglio la città, facendo volontariato, lavorando anche in una struttura
che accoglie, accoglie proposte culturali e accoglie persone fisicamente
dando un luogo dove esibirsi, incontrarsi, socializzare, crescere, mi sono
accorto che questa città è una improvvisazione unica. Mi dicono che
questa è una caratteristica degli Italiani: l’Italiano non pianifica,
improvvisa, trova dei modi per aggirare gli ostacoli, non li salta, non
guarda lontano per vedere quanti ce ne stanno ancora, se ce la fa o no a
saltarli: li aggira, e quando ne trova un altro troverà il modo per
aggirare anche quello. Secondo me non è il modo migliore per pianificare
il futuro di una città che è un organismo vivo: io ho studiato
antropologia e ho il pallino dell’organismo vivo, della città che va
accresciuta e nutrita con proposte sensate, che sta andando verso una
determinata parte, che non è una cosa stagna che guarda solo al passato
che è sicuramente glorioso, ha lasciato delle tracce indelebili,
fantastiche, che tutto il mondo ci invidia: detto questo, dove stiamo
andando con questo prodotto? Vogliamo l’Università, allora arriveranno
studenti; siamo in un mondo globalizzato, vogliamo concorrenza tra le
università, quella di Perugia sta funzionando, allora ne arriveranno
altri: dove li mettiamo? Il mercato risolverà tutto. Che fanno questi
ragazzi in un periodo cruciale della loro vita: studiano e poi se ne
vanno, o vogliamo che qualcuno, magari i migliori, rimangano e diano alla
città più possibilità per il futuro? Allora se vogliamo questo,
dobbiamo offrire anche noi qualcosa a loro; e allora non è possibile che
là dove vivono loro e molti altri, anche gli stessi Perugini, per carità,
anche se sono rimasti solo in settemila al Centro storico, non
dimentichiamoli, non è che devono stare tutti a San Sisto o Solfagnano.
Che gli offriamo? Cinema no: abbiamo deciso che i cinema devono crescere a
Centova; teatro: allora diciamo che rendiamo quasi impossibile fare teatro
togliendo gli spazi ai gruppi teatrali che ci sono e di cui dobbiamo andar
fieri, e togliendo anche i fondi: arrangiatevi, mettetevi sul mercato,
chiedete gli ingressi. Allora che gli diamo? Posso immaginare lo sport
nella città: no, bisogna scendere verso la Pallotta che lì ci sarà chi
sa quando un polo sportivo; tu abiti dall’altra parte della città? E
allora arrangiati. Non mi sembra una buona proposta per una città che
vuole veramente essere come un padre per i suoi figli, crescerli bene, e
non mi sembra neppure bello per le parti da dove vengono, nella fase in
cui crescono, apprendono nozioni, diventano persone in tutto e per tutto,
poi tornano verso il Sud da dove molti vengono, e quale cultura portano?
Quale capacità di far crescere le parti da dove vengono? Niente, solo
nozioni imparate all’Università, non un vero percorso di vita. Allora lì
c’è l’associazionismo che in qualche modo tappa i buchi, però io
faccio di mestiere l’operatore sociale e vi posso dire che sta
diventando una cosa impossibile: a livello nazionale c’è una nuova
legge sul sociale che taglia i fondi da destinare ai servizi sociali per
tutti i comuni e enti locali in generale. Allora, con sempre meno fondi si
devono affrontare delle emergenze vere, grandi, dai minori agli anziani
all’handicap alla psichiatria, sono campi in cui è sempre più
difficile trovare delle risposte ai bisogni degli utenti. Anche questa è
un’area in cui questa città non eccelle: non c’è una visione di come
vogliamo i servizi sociali, l’accompagnamento in situazioni di difficoltà,
di disagio o di vera e propria emergenza, non sappiamo accompagnarli, anzi
l’amministrazione guarda a nuovi attori, all’associazionismo, al
volontariato. Io non ci devo pensare che gli utenti dove vado io, che ho
una formazione fatta in un determinato modo, si troveranno nelle mani di
“volontari”, che sono sicuramente delle bravissime persone, dotate
anche di grande sensibilità, però non hanno la formazione per lavorare
con delle persone con handicap multipli: dove vanno questi? Non vanno
sicuramente a Perugia, perché se mi viene in mente di portare un mio
utente in carrozzina nel centro di aggregazione che gestisco, col cavolo!
Non c’è modo! Questa città è proibita agli handicappati! Allora, io
ritengo che non c’è visione nella gestione della cosa pubblica, non
c’è un’idea della città che vogliamo, non c’è una vera
partecipazione da parte della società civile nella gestione di questa
cosa pubblica che è la nostra città. Hanno funzionato
per un po’ di tempo alcune consulte: dell’immigrazione, o della
cultura, ci si vede tra soggetti insieme all’assessore di riferimento,
ci si parla addosso, la buona volontà spesso non mancava, però io che
spesso rappresentavo Amnesty international o il centro di aggregazione
dove sono presidente o questa nuova struttura, il Cantiere sociale, mi
trovavo con della gente che diceva: “Assessore, senti un po’, io ho
questo spettacolo, quanti soldi mi dai?” Cioè ognuno stava zappando il
proprio orto, non c’era un confronto che portava alla fine ad una
condivisione di una città così come l’avremmo voluta noi. Allora che
partecipi? Quale bilancio sociale, partecipato? Nessuno, si va avanti
improvvisando, andando da emergenza a emergenza. A ulteriore dimostrazione
di tutto ciò, ora, nel Macadam, dove c’era un’utenza molto variegata
che andava da associazioni come Greenpeace oppure Mani tese ecc., che
usavano lo spazio per fare le serate, diffondere i loro obiettivi, a
serate di cinema, lo facciamo ora con dei sedici millimetri, una cosa
bellissima che non si trova più nemmeno a pagare oro e noi non facciamo
nemmeno pagare, a concerti che aggregano un sacco di gente che ha anche
voglia di divertirsi e che magari fanno anche un po’ di rumore quando
escono; in quel posto, le associazioni si sono messe insieme e si sono
dette: qui non si esce più, i cinema chiudono, i teatri sono con
l’acqua alla gola, spazi veramente pubblici per fare incontri e
dibattiti non ci sono, devi piangere in cinese per avere una sala in un
palazzo che alle sette deve rigorosamente chiudere, dopo cena non c’è
dibattito, non si può discutere dopo cena: si va al pub, si beve una
birra, anche tre o sette, si fa casino, ecco, finito: noi abbiamo detto:
no, anche dopo cena si deve poter parlare di politica, intesa come società
civile che partecipa. Per fare questo posto, abbiamo fatto un progetto:
c’era gente anche con capacità di progettazione, gente anche con
accenti meno stranieri del mio, con accento perugino, gente che è nata
qua, è cresciuta e ha studiato qua, siamo andati dagli amministratori
pensando ingenuamente che avrebbero detto: Ma caro! Fammelo leggere questo
progetto! Non l’ha letto nessuno! Abbiamo dovuto prendere l’assessore
Wladimiro Boccali per un braccio, torcerlo ben bene, per fargli digerire
tre pagine di progetto. Dopodiché, devo dire la verità, lui ci ha
provato in tutti i modi ad interessare altre parti politiche a questo
progetto, perché ha ragione Gabriele, bisogna passare per la politica.
Dopo tre anni, pare che ci siamo riusciti: c’è una delibera della
Giunta, che delibera innanzitutto la consegna in gestione di uno spazio
pubblico degradato al massimo, non più a norma, usato solo quattro ore
alla settimana per fare pattinaggio a rotelle, che è il Cva dei
Rimbocchi, uno di queste vampate di fare qualcosa per la cittadinanza che
ha afflitto Perugia negli anni 70-80, per cui in ogni luogo doveva esserci
il suo colosso di cemento dove aggregarsi; e di solito questi Cva non
funzionano, ci sono sette vecchietti che giocano a bocce o a carte e
magari ogni tanto c’è un gruppetto che fa pattinaggio a rotelle: altro,
purtroppo, in questi luoghi non succede mai, perché non sono a norma, non
ci puoi fare un concerto, non si può usare per il cinema, o per il
teatro, né per le cene sociali, perché non hanno le cucine, e così via.
A che cavolo sono serviti questi Cva? Comunque, uno di quelli hanno detto:
gestitelo voi, vi diamo anche un po’ di soldi per metterlo a norma e poi
arrangiatevi. Allora noi in quel coso che abbiamo chiamato Cantiere
Sociale andiamo a fare di tutto, dalla mattina a note: iniziamo la mattina
con aggregazione dei soggetti del quartiere, cercando di mettere in
contatto finalmente questi anziani con i giovani che vivono i luoghi;
magari troviamo anche modi sensati per fare un’aggregazione
intergenerazionale, per esempio il nonno aiuta a fare delle cose che i
ragazzi adesso non sanno più fare, e che magari non vorrebbero nemmeno
fare, ma che sono utili; andiamo a fare laboratori per ragazzi con
problemi, con svantaggi sociali o handicap; andiamo a fare una mensa
biologica, rigorosamente biologica, che si rifornisce unicamente da
coltivatori del Perugino e della regione, favorendo il bioregionalismo,
aprendo un nuovo canale di mercato per gli agricoltori disastrati del
biologico del Perugino; andiamo a fare teatro: possiamo ospitare - questo
è un altro esempio di quanto siamo “diversi” - noi non andiamo a
dire: questo è nostro, ci mettiamo un bel cartello: “non ti
avvicinare”, no, se il Teatro di sacco vuole fare uno spettacolo, ecco
finalmente un posto che trascende quel buco di ottanta posti che gli è
stato dato finora, visto che al Morlacchi non ti ci puoi nemmeno
avvicinare, noi diciamo: se volete fare teatro, ecco qua una bella sala;
andiamo a fare concerti, così non rompiamo le scatole ai vicini, togliamo
i concerti da dove li facciamo adesso e li andiamo a fare lì, in
periferia: non dovremmo dare molto fastidio alla gente, ma finalmente ci
sarà un luogo dove gruppi, perugini e non, si possono esibire per più di
cinquanta persone. Mi sembra assolutamente normale che ci sia in una città
come Perugia, capoluogo di regione, polo di attrazione per il territorio
esteso, qualcosa tra il pub che può ospitare cento persone per concerto e
il Palaevangelisti che ne ospita tre o quattromila, e che ha un’acustica
che non è decente. Andiamo a fare queste cose e lo facciamo con una
associazione delle associazioni, in modo da essere trasparenti,
partecipativi, ecc. A me piacerebbe che una cosa del genere fosse un po’
più conosciuta e partecipata, anche da parte di chi amministra questa
città, in modo da poter servire in qualche modo anche come modello per
altre parti della città, per altre idee, che è l’unico futuro anche
per i servizi sociali, quello della messa in rete dei soggetti e della
condivisione dei progetti, degli spazi
e delle competenze, in modo da rispondere finalmente ai bisogni
almeno di una parte della città che non è assolutamente minoritaria. Una città esplorabile da bambini e bambineWalter Pilini: Io sono Perugino nativo, ma questo non significa accampare diritti: posso solo portare la mia testimonianza su una città che ho esplorato per cerchi concentrici dal luogo dove sono nato, cioè Corso Bersaglieri, i suoi vicoli intorno, fino ad arrivare all’estrema periferia che per noi era il Tevere d’estate in modo particolare, e il campo di Prepo dove andavamo a giocare a pallone. Devo dire che nel tempo mi sono accorto che Perugia non l’ho più riconosciuta come la mia città, per tanti motivi: per un degrado, che è sotto gli occhi di tutti. Io credo che una città sia sostenibile e vivibile quando è sostenibile e vivibile da parte dei bambini e delle bambine; lo dico con cognizione di causa visto che sono insegnante; la nostra è una città dove i bambini sono assenti, o se ci sono girano accompagnati costantemente dai genitori; non ci sono spazi per bambini, spazi cioè dove i bambini possano vivere liberi di fare esperienze e non siano continuamente eterodiretti o etero-organizzati; Perugia non è a dimensione di bambini e bambine. Parlo di degrado, che tocco con mano quando con il mio cane vado nei parchi cittadini, dove c’è la convivenza di più soggetti con interessi a volte divergenti: non posso accettare di andare al Pian di Massiano, dove prosperano certi turpi commerci e dove un’ora dopo vanno i bambini, toccano e si arrampicano sulle panchine. Il centro vive uno stato di degrado in una fase preagonica e irreversibile, io con molta tristezza vado al Mercato coperto che ha sempre meno saracinesche aperte. Per concludere, a me sembra che siamo sottoposti dai nostri amministratori a quella che definisco una lobby d bottegai, molto attenta ai propri interessi, meno attenta agli interessi complessivi della città e delle persone che ci abitano. Io credo che i disagi di Eurochocolate, che viviamo sulla nostra pelle, si stiano moltiplicando e sono abbastanza pessimista: e mi pare di poter dire, da perugino nativo, che non mi riconosco più nella città che ho conosciuto, nella città della quale, portone su portone, mattone su mattone, finestra su finestra, io ho ricordi e che ancora mi parla. Dico una cosa che ho notato domenica scorsa in corso Bersaglieri dove una coraggiosissima operatrice culturale ha recuperato la bottega e la cantina del nonno per fare uno spazio di energia creativa: fa questa cosa concepita nel deserto, perché corso Bersaglieri, il borgo di S. Antonio è morto, dal momento in cui il traffico l’ha soffocato, le macchine sono parcheggiate e soffocano il passaggio, non è certo quel percorso pedonale che una volta era e che permetteva di camminare, soffermarsi, parlare, aggregarsi, e dove c’era quella vecchia generazione come il babbo mio che aveva la casa e la bottega; oggi è diventata una anonima via di passaggio. Un programma di salvaguardia comunitariaPaolo Vinti: La
valutazione in questa fase è che Perugia sia una città in transizione da
città a piccola metropoli, dalle centoventimila persone alle probabili
duecentomila; oltre a ciò, c’è il fatto che si sta andando a una
campagna elettorale per le elezioni amministrative ed europee: ciò
implica che direttamente o indirettamente, o con candidature o senza
candidature, si debba proporre un programma. Un programma spetta alle
forze politiche che saranno all’interno della lotta elettorale, un
programma può spettare alla società civile, alle associazioni, al
movimento, a tutte le forze che producono politica e cultura. Una delle
ipotesi per il programma riguarda la questione sociale, in altri termini
sgravi fiscali per la cultura, per la fruizione di beni e servizi, la
gratuità dei mezzi di trasporto, la presenza di quote di immigrati negli
uffici e nelle assemblee elettive, una situazione culturale per cui ogni
comunità possa produrre un giornale, o l’incisione di un cd. Si tratta
di produrre a Perugia, in questa transizione verso la dimensione
metropolitana, delle ipotesi di salvaguardia comunitaria, cioè di
salvaguardia dei livelli di solidarietà, di reciprocità, di libertà e
di uguaglianza: un’ipotesi femminista, per quanto riguarda la sessualità;
un’ipotesi, per i bambini e gli anziani, di allestimento di comunità e
di reciprocità con le altre realtà anagrafiche; centralità del lavoro.
Terminando, c’è da registrare il fatto che il movimento ha elaborato la
categoria dell’impero, cioè dell’organizzazione del potere:
un’organizzazione che è sopra le istituzioni, sopra gli esecutivi,
sopra le organizzazioni internazionali e detiene il potere e, in ultima
istanza, dirime le decisioni generali. Nei confronti dell’impero, c’è
un’ipotesi riformista, c’è un’ipotesi rivoluzionaria, in ogni caso
c’è una relazione interna ed esterna che è da prevedere. Norme di salvaguardia e disastro della gestioneMaria Rosa Rizzi: Io sto a Ponte Valleceppi, dove stiamo facendo delle battaglie per cercare di salvaguardare l’ambiente fluviale del Tevere, perché sta arrivando il disastro; è già cominciato: ma non possiamo soltanto registrare quello che è già successo, dobbiamo fare in modo che non succeda il disastro. Il f atto è questo: è stato appena fatto il piano regolatore, e stanno già mettendo in campo la quarta variante: lunedi approveranno la seconda, che permetterà lo spostamento della strada Valvitiana, per evitare la polvere alla piscina costruita a Ponte Felcino su un’area classificata “parco privato attrezzato” e che ha utilizzato ogni millimetro per cui non c’è più ormai un filo d’erba, ha fatto il parcheggio addosso alla pineta, poi ha fatto le reti per i campi di calcetto, con i pali altissimi per i fari, poi gli spogliatoi, e dietro, incassato fra i capannoni, parcheggi, spogliatoi, ci sono le piscine, senza nessun rapporto con il Tevere; e in più oggi chiede alla collettività di spostare una strada, che è vincolata, per addossarla alla pineta, così la polvere va sulla pineta e non sulla piscina. Dopo l’approvazione del piano regolatore, noi abbiamo cercato di mettere delle norme di salvaguardia per evitare di rovinare definitivamente tutto il paesaggio; ed infatti io propongo di fare una passeggiata a Valvitiano per vedere un paesaggio che nel giro di pochi mesi scomparirà: bene, le norme di salvaguardia non sono state accolte, neanche a discuterne, perché non si può cambiare un piano regolatore appena approvato. Ma sul piano regolatore è prevista la tutela dell’ambiente, la vocazione allo sviluppo basato sull’ambiente, quindi il parco del Tevere, ecc.: ma sulla carta ci sono solo pezzettini qua e là, che con aggiustamenti successivi sono ridotti, alla fine non c’è più niente. In realtà c’è un buco nero nella gestione, non si sa gestire, non si sa passare dalle dichiarazioni di principio alle condizioni di fatto. Io ho questa esperienza di questo stacco spaventoso, patologico, che crea anche grande disagio sociale, perché è insostenibile per la gente vedere che si dicono delle cose e se ne fanno delle altre. Tutto ciò è anche contro gli interessi di chi investe: ora ad esempio fanno un albergo tra un capannone e l’altro, e la chiamano casa di campagna (country house): cioè, io vado in vacanza in Umbria e mi ritrovo davanti a un capannone industriale? Per concludere, penso che noi dobbiamo anche cercare di ragionare su queste cose non avendo sempre l’amministrazione come referente: cioè tanto più i cittadini si relazionano tra di loro e trovano capacità e risorse in se stessi, tanto più sono anche più forti, piuttosto che stare a chiedere per piacere questo o quello, che dà all’amministrazione anche un potere di sudditanza. Questo è insostenibile. Quanto al policentrismo,
vorrei aggiungere che oggi, se l’unico modo di accedere alle cose è la
macchina, escludiamo la centralità dei luoghi, e ci scordiamo anche
l’emancipazione dei soggetti, dai bambini agli anziani ecc., che devono
restare a casa e non possono andare da nessuna parte, nemmeno alle
piscine: allora la concentrazione attorno alle stazioni della ferrovia è
fondamentale per mantenere questi centri; non si tratta di risolvere il
problema del traffico, è proprio il problema di come si costruisce una
città, per cui intorno a una stazione si fa una piazza, un mercato, un
luogo di incontro. A piedi si vedono meglio le coseEvaristo Righi: Io
vorrei intervenire su questo discorso della macchina. Di fatto, c’è
isolamento tra un paese e l’altro. Allora, forse, si potrebbe pensare al
sistema Apm, che ha fatto una cosa buona perché giunge anche in campagna,
però è rimasta lì a metà, perché il mezzo pubblico termina alla sera.
Basterebbe che il mezzo pubblico arrivasse in certi punti, e da lì poi la
gente può muoversi a piedi. Si potrebbe rivalutare questa qualità del
muoversi, perché quando uno va a piedi si vedono meglio le cose, si può
incontrare un amico, si parla… È questa la società che vogliamo?Robert De Graaf: A
me tutte queste cose vanno benissimo, però quello che ho cercato di dire
non è che io ho una soluzione, però le cose non succedono per caso, e
tutte le cose sono legate. Si dice: le botteghe in corso Bersaglieri sono
chiuse: ma non è a caso, perché abbiamo permesso che accanto si facesse
l’industria che faceva gli stessi prodotti a prezzo inferiore; certo, la
qualità non c’era, ma sono andati in malora migliaia di artigiani
perugini, che sono diventati probabilmente operai in quelle fabbriche,
sono stati sfruttati ben bene e spesso mandati a calci in culo quando non
servivano più. Ma l’abbiamo voluto noi! Il corso Bersaglieri è un
unico parcheggio: ed è bruttissimo, vieta ogni tipo di aggregazione in
quella zona, non puoi mettere un tavolino fuori, non puoi passeggiare col
cane; ma di chi sono queste macchine? Si dice: facciamo degli autobus e
facciamo a Sant’Andrea delle Fratte un megateatro con venti sale, come
ha fatto Roma, che però ha messo un mucchio di autobus: allora è logico
che la gente rimane al centro, perché almeno qui un cinema c’è ancora,
un teatro c’è ancora; a prescindere dal fatto che qui abitano e quindi
qui dovranno poter uscire. Se abbiamo voluto questa cosa così, è logico:
io non ho figli, ma se i figli adesso sono svogliati, sono scortesi, , si
drogano, ecc., di qualcuno sarà pure la colpa; io non ce li ho i figli,
è inutile che ci piangiamo sempre addosso. Prendendo la cosa di Ponte
Valleceppi, se la situazione lì è così, è perché qualcuno l’ha
voluta, e nel grande gioco delle trattative che è il piano regolatore,
quello ha tirato un po’ di più, ha interessi che prevalgono, e allora
se lì ci sarà un’emergenza, tra un po’ di anni qualche altro sindaco
andrà lì a piangere e a dire che farà qualcosa, come fa Locchi andando
a fare figuracce in televisione in diretta parlando alle Iene parlando
della situazione di una distilleria pericolosissima accanto a un deposito
di gas. Ma ‘ste cose le abbiamo volute così! E’ inutile guardare la
città come un insieme di mille piccoli problemi: la città è un
organismo vivo, tocca vederlo nel suo complesso, e tocca creare una
situazione in cui è permesso di vedere la città nel suo complesso, che
non è solo il consiglio comunale dove sta chi è stato più bravo ad
accaparrarsi duecento voti che bastano per diventare assessore, è la
società civile che si mette insieme, che si parla, che si scambia le idee
e che non dice: Ma se tu non vieni alla mia così alla tua io non ci
vengo; se tu mi becchi i soldi perché sei più simpatico all’assessore
e io non li becco più allora non ti parlo più, come facciamo sempre a
Perugia. Secondo me, se vogliamo veramente vedere una città diversa, non
dobbiamo vedere ogni singolo problema come una cosa totalmente slegata, e
non dobbiamo meravigliarci che se tu permetti di fare a tre chilometri da
Perugia un ipermercato, che le botteghe chiudono, che dopo devi fare la
variante per portarci la gente, che dopo la gente diventa scema come gli
Americani che ho visto che andavano da piccoli alla mall,
l’ipermercato, ci si fidanza pure, ci si fa l’amore dietro alla
conifera di plastica, ci si muore pure: ma è questa la società che
vogliamo? Se non è così, diciamolo, e non permettiamo di fare queste
cose. Il policentrismo per rafforzare le identità e il territorioMiro Virili: Il policentrismo è una realtà storica di questa parte d’Italia, mentre in altri parti le cose sono diverse. Penso a centri del regno di Napoli che non sono mai stati città: centri che magari hanno cinquantamila abitanti ma sono paesi, mentre un piccolo centro come Amelia, magari con poche migliaia di abitanti, si è sempre retta come una città. E il discorso del policentrismo da noi resiste ancora: a livello della provincia di Perugia, ci sono zone con un fenomeno di concentrazione come l’asse Perugia-Corciano o l’asse Perugia-Assisi-Foligno, in cui c’è un’alta insostenibilità, c’è una fascia che alcuni chiamano appunto del policentrismo formata dalle piccole città, e una fascia dei comuni della rarefazione, della montagna, come Massa Martana, Giano, e così via, dove c’è il fenomeno dell’abbandono in cui l’insostenibilità si legge in un’altra direzione. In ogni caso, per me policentrismo non significa congelare il territorio sulla sua storia, perché ogni città, come anche ogni borgo, si trasforma, l’importante è indirizzare la trasformazione: è chiaro che se abbiamo abbandonato i vecchi casali dove c’era la cultura della mezzadria che oggi è scomparsa, non posso riportare indietro le cose, posso però riconvertirli. Quindi il centro storico bisognerà ripensarlo in qualche maniera in funzione di come si evolve la città; l’importante, nel caso di Perugia come di tante altre città, è impedire che passi questa aspirazione a diventare metropoli, anche se con centosessantamila abitanti non può essere metropoli, più che altro è l’aspirazione che sembrano avere le città di provincia ad essere metropoli anche se non lo saranno mai. In questo caso va rafforzato il policentrismo, rispettando le identità e ricollegandoci al territorio. Noi parliamo sempre di Perugia, ci dimentichiamo sempre il territorio che è fondamentale nella nascita e nello sviluppo di Perugia, così come il Tevere, e le frazioni che stanno sul Tevere: Ponte Valleceppi denuncia nel nome l’importanza della viabilità sul territorio. Le associazioni devono uscire nella cittàLuca Fondacci: Innanzitutto, penso che un processo di transizione da città a metropoli è probabilmente esagerato, tuttavia attualmente è in corso da città ad area metropolitana. Inoltre, quando Robert dice che la città è un organismo da vedere nel suo insieme, è vero, io sono molto d’accordo; e, terza cosa, il territorio: in questo periodo si punta a collegare Perugia ai sei comuni dell’area non solo dal punto di vista economico, ma anche culturale, urbanistico, ecologico, per cui questa fase di transizione è effettivamente in corso. Per quanto riguarda il Broletto e Piazza del bacio, io penso che per rivitalizzare un luogo del genere sono anche le associazioni, e la cittadinanza stessa, che deve fare pressione; si diceva prima che il centro storico è in mano a una lobby di commercianti: è vero, ma penso che piazza del Bacio si muova quando le associazioni si muovono e cominciano a frequentarla, attivandosi, perché è questo che può salvare la città dal degrado; quest’estate c’è stata una manifestazione di musica e cinema, che ha portato lì le persone, e piazza del Bacio ha vissuto tre giorni belli. Infine, le telecamere: non dimentichiamoci che c’erano stati degli atti vandalici su San Francesco, nel 1999, e essendo patrimonio della città, si è fatto ricorso a questo strumento; certo, con la partecipazione, e le associazioni stesse devono uscire dai loro spazi, pur con i problemi che hanno, e stare nella città. Maria Rosa Rizzi: A
me sembra assurdo perché, appena fatto un luogo sbagliato, sbagliatissimo,
si chieda poi alle associazioni di supplire a un luogo che non è una
piazza, è un cortile, che dal punto di vista commerciale è disastroso
perché chiunque ci ha provato ci ha rimesso le penne. Perché è proprio
sbagliato, completamente sbagliato, i negozi non hanno le vetrine, i
portici sono cunicoli, e la prima cosa che si è trovato nei cunicoli sono
state le siringhe; e quei commercianti che non l’hanno capito subito ci
hanno rimesso i soldi e se ne sono andati: perché lì è chiuso; la
piazza dev’essere aperta. Ridisegnare un’idea di cittàRenzo Zuccherini: Forse bisognava prendere una persona, metterla lì e poi disegnare intorno il Broletto, si poteva dire: allora, ha bisogno di queste enormi colonne e di questi cunicoli, oppure ha bisogno di una panchina, e di vetrine, e di un posto dove mettere le insegne? Di cosa ha bisogno una persona? Però, mi sembra che abbiamo detto tutte le cose di cui ci lagniamo, e mi sembra giustissimo: l’idea della rivista, da cui è nato questo incontro, è che non solo Perugia, ma in generale queste città in cui viviamo, che pure sono considerate tra le più vivibili, in realtà sono insostenibili così come sono pensate oggi, perché al centro di queste città, al centro degli interessi, c’è il mercato; e non il mercato come luogo di ritrovo e scambio delle persone, ma il mercato come ideologia, in funzione esclusiva e cieca del profitto. A me pare però che finora è mancata un’idea diversa da questa; che se il piano regolatore funziona in un certo modo, e si stravolge appena un potente vuole imporre il suo interesse, è perché manca un’altra idea di città, che deve esistere. Vorrei ribadire allora che vanno benissimo i grandi progetti, servono anche quelli, ma quello che ci manca e che oggi serve è di cominciare a “pensare con i piedi”, nel senso di pensare alla persona che si sposta nel suo territorio, e che si sposta anche altrove, e che ha anche internet per viaggiare virtualmente, ma che nel suo territorio si riconosce, ci abita, lo possiede, gli viene affidata una responsabilità, per esempio i rifiuti che produce se li gestisce, per esempio l’aiuola davanti a casa se la gestisce, ovviamente in comunità, e su questo affidamento nasce il senso di impossessamento: o la città è la mia, perché ne faccio parte e quindi ne sono padrone, oppure la posso rompere, che me importa? Che mi importa del Broletto, dove alle cinque di sera non c’è più una luce e quindi io quando mai la sera andrò al Broletto? Certo, ormai questa cosa esiste: e questo è un altro punto che volevo toccare; per cui dovremo fare qualcosa; forse anche questo luogo della città, che stasera abbiamo preso come punto di dissenso, il Broletto, che è un tentativo di disegnare una Perugia astratta, falsa, perché Perugia non è fatta in quel modo: certo ci sono i vicoli, ma erano a misura di persone e carri, non erano cunicoli, comunicavano, non andavano a sbattere nel vuoto; io penso che bisognerà pensare a ridisegnarlo, questo luogo, non solo chiedendo al volontariato e alle associazioni di attivarsi: bisognerà intervenire nella città, anche nei quartieri periferici a partire dal fatto che chi sta nei quartieri decide quello che al quartiere serve: e si assume le sue responsabilità, per cui se la popolazione sbaglia, sarà la popolazione stessa che se ne renderà conto. Con la possibilità di rischiare, ma portando il livello della decisione sul posto, io penso che le cose potrebbero comunque andar meglio. Che città stiamo facendoRenzo Massarelli:
C’è oggi anche da sapere che città stiamo facendo, e che città sarà
alla fine: perché il carcere deve andare a Capanne, e il tribunale deve
andare al carcere, e la Biblioteca Augusta deve andare a Piazza Matteotti,
e il Mercato coperto non sappiamo che cos’è: noi stiamo dentro una
grande confusione, e non riusciamo a capire dove viviamo oggi e dove
vivremo, se possibile, anche domani. Questa fase di passaggio e di
confusione è quella che crea uno dei maggiori disorientamenti e crisi di
tutti noi, di identità della città, perché è talmente lunga; nel
frattempo in questi anni la città, il centro storico, ha cercato sempre
altri luoghi fuori di sé, per cui il Broletto è uno di questi altri
luoghi; Ferro di Cavallo è ancora un altro luogo; San Sisto un altro; ed
è tutta una storia di fallimenti: ogni volta che qualcuno ha provato a
inventare un’altra città, lì ha sbattuto il muso, e quasi sempre tutti
questi altri luoghi fuori dal centro storico per ricreare un’altra
identità urbana sono nati su interessi di speculazione immobiliare.
Questa è la storia infinita della lottizzazione di questa città. Nel
frattempo, la gente se n’è andata, ed è arrivata tutta una serie di
attività spurie; tutto questo movimento è stato definito la
modernizzazione, con quelle che Locchi chiama le opportunità: Centova,
ipermercati. In realtà sono affari, attività scoordinate, improvvisate,
imposte da interessi che girano e che muovono altri interessi e altri
gruppi. Da qui anche la crisi del centro storico, che non può vivere più
con i residenti; per cui la logica dei commercianti è: bisogna portare su
la gente; che è un modo assurdo di concepire la città. Naturalmente la
città dev’essere aperta, un luogo dove la gente ci viene, ma non perché
bisogna portarla su quasi con le tradotte perché se no le attività non
vivono. Ma quante sono le persone che ci devono vivere effettivamente?
Duemila negozi di abbigliamento sono necessari? C’è anche un numero
eccessivo di locali notturni, aperti solo la notte: quanti giovani
dobbiamo portare su, che peraltro non vogliono andare a piedi, per far
vivere tutti questi locali? Questa è la città degli interessi
segmentati. Due giorni fa sono andato a vedere i cantieri del minimetrò,
che è una scommessa importante, non ci si può scherzare, è anche frutto
di coraggio, è stata una città coraggiosa a fare questa scelta: però
adesso il minimetrò può essere tante cose diverse; può essere lo
strumento del bottegaio che mi dice: dobbiamo portare su la gente, cioè
semplicemente un mezzo che non servirebbe a nulla, se non a creare una
città ancora più deserta, una specie di Venezia con migliaia di persone
che vanno e nessuno ci abita più; o invece il minimetrò deve servire a
qualcos’altro? Il vantaggio delle ferrovieMaria Rosa Rizzi:
Il problema è che non siamo così tanti da poter riempire tutte queste
linee di autobus treni minimetrò ecc., che muoiono tutti perché non
rientrano nei costi. Quindi bisogna concentrare non solo le risorse, ma
anche i servizi. Oltretutto la ferrovia ha un vantaggio enorme, che è
piena di stazioni, da nord, sud, ovest e est: quindi uno che viene da
Foligno, ed ha il servizio che arriva in centro, non ha più bisogno della
macchina; il minimetrò è concepito perché uno vada al Pian di Massiano
con la macchina; e già questo è sbagliato, perché se si fa uscire uno
con la macchina, e in cinque minuti è al centro, perché deve prendere il
mezzo? Non bisogna farlo uscire proprio. Sono anni che a Ponte Valleceppi
chiediamo la fermata del treno: ci passa davanti, semivuoto, e non ferma.
Il problema è che la maggioranza di queste stazioni ormai le han fatte
diventare inaccessibili a piedi, o con la bicicletta. E invece il treno
sarebbe comodissimo: ma noi non
riusciamo più a passare il ponte per raggiungere la stazione, perché
c’entrano solo le macchine: chiediamo una passerella solo per i pedoni,
che servirebbe per andare alla stazione ma anche per collegare la parte
del paese a monte con il centro, i negozi e la chiesa. Eppure
Eurochocolate ha messo davanti la soluzione, e non la vedono: perché con
Eurochocolate hanno messo in piedi un sistema di trasporti che ha
funzionato benissimo, fatto di navette dal basso, ogni dieci minuti:
bastava continuare così! Sparirebbero un mucchio di macchine dal centro,
a patto di avere un mezzo ogni dieci-quindici minuti, non un autobus ogni
ora. Dalle
piccole cose, un’altra idea di città Renzo Zuccherini: E’ anche il caso delle nuove rotonde, appena costruite, che non hanno il marciapiedi, e quindi impediscono ai pedoni di andare dall’altra parte. Sono state disegnate pensando a un altro tipo di città, in cui si impedisce alle persone di andare a piedi. Vorrei dire che queste cose possono sembrare piccole, ma non sono piccole: messe insieme, e pensate al momento di progettare la città, ci danno un’altra idea di città, e forse servono anche a controbilanciare le spinte degli interessi forti. |