Mario Rossi da Buda

Intervista a Fulvio Porena

 

BUDA È UNA FRAZIONE DEL COMUNE DI CASCIA, AD OLTRE VENTI CHILOMETRI DAL CAPOLUOGO, SUL CONFINE DELLA REGIONE VERSO L’ANTICO REAME DI NAPOLI. È UNO DEI CENTRI ABITATI CHE SI AFFACCIANO SUL PIANO DI CHIAVANO, UN ALTIPIANO VERDEGGIANTE, ANTICO FEUDO DEI CONTI DI CHIAVANO, CHE OGGI APPARE REMOTO ED ISOLATO MA È STATO DAI TEMPI PIÙ ANTICHI UN FACILE PASSO TRA CASCIA E LEONESSA, TRA GLI STATI ECCLESIASTICI E, APPUNTO, IL REAME: TERRA DI COMMERCIANTI E CONTRABBANDIERI, DI TRANSUMANTI E DI TRUPPE DI PASSAGGIO, DI INSORGENTI E PARTIGIANI. BISOGNA ANDARCI PER RENDERSI CONTO DEL LUOGO. A BUDA È VISSUTO IL PITTORE MARIO ROSSI, FIGURA SCHIVA MA INTENSA E RICCA, DI CUI CI PARLA FULVIO PORENA, BIBLIOTECARIO DEL COMUNE DI CASCIA E SUO ATTENTO AMICO, CRITICO ED ESTIMATORE.

Di Mario Rossi, dopo che è morto, ha scritto una cosa molto bella Lamberto Gentili, che lo ha incontrato pochi giorni prima della morte, una poesia, che ha colto a pieno lo spirito di questa persona. La sfortuna di Mario Rossi è quella di essere nato a Buda, e di essere stato poi racchiuso a Buda: aveva in mente di conoscere il mondo e invece è stato costretto a stare a Buda. Dal punto di vista biografico, è nato nel 1935, e ha fatto gli studi superiori fino al Liceo classico, in seminario, e anche questa è stata una delle sue grandi sofferenze, perché non sopportava qualsiasi tipo di reclusione, nessun tipo di verità rivelata, per lui tutto doveva essere visto, tutto doveva essere raccontato dopo che uno lo aveva visto. Poi è uscito dal seminario e ha preso il diploma di maestro elementare, e insegnava negli anni Sessanta: però poi la sua passione per la pittura, per la quale non ha mai fatto corsi regolari, ha fatto sì che secondo lui non potevano conciliarsi le due cose, per cui ha smesso di fare il maestro, cioè una cosa certa, per una cosa incertissima, che era incerta ancora dentro di sé: lui voleva fare il pittore senza esserlo ancora, senza avere un mercato, senza avere una persona che lo spingesse, ecc. E dunque si è messo contro la famiglia, una famiglia di contadini che non vedeva assolutamente di buon occhio questa situazione, cioè il fatto che dipingesse invece di fare il maestro potendolo fare, oppure di andare nelle stalle; quindi ha avuto questa grande incomprensione della famiglia, tranne che la mamma: la mamma lo ha sempre molto apprezzato, e lui ha sempre molto apprezzato la mamma, il suo critico ufficiale era la mamma, qualsiasi cosa faceva lui andava a verificarlo dalla madre, anche i dipinti; e lui le sottoponeva finché è stata viva tutte le cose che faceva lui.

Quando lo ha conosciuto?

Io lo conoscevo ovviamente, come persona un po’ stravagante, schiva, che anche a vederlo passare dava il senso di una certa stravaganza, e poi l’ho conosciuto nel 1978 a Buda, insieme a Lamberto Gentili, e subito abbiamo capito che era il caso che facesse il pittore per davvero. Lui per la verità ha avuto una bella parentesi formativa a Tivoli, per un periodo di tempo, e per caso ha avuto una specie di Pigmalione in un corniciaio che lo ha messo in contatto con molti pittori nord-europei, tedeschi, inglesi, che frequentano Tivoli; e quello è stato un momento importante per lui. Poi però si era ritirato a Cascia, sempre in una condizione di intolleranza della famiglia, anche per motivi economici, che sono sempre stati addirittura sconvolgenti per Mario, che è sempre stato senza il becco di un quattrino. Noi siamo entrati subito in grande sintonia, nei primissimi anni dell’80, subito dopo il terremoto del ’79; lui si è molto fidato di me, ci siamo capiti immediatamente, e io l’ho consigliato quasi con la forza a fare un passo in avanti, a diventare pittore per davvero, cioè a iscriversi all’artigianato: e questo è stato un momento molto importante, perché nella sua indeterminatezza è stato un punto fermo della sua vita, significava essere un pittore riconosciuto, era un riconoscimento, e da quel momento anche la produzione sua è stata un pochino più regolare. Lui, fino agli ultimi istanti della vita, ha sempre pensato di non aver raggiunto la tecnica, per lui bisognava sempre sperimentare, e invece dal punto di vista della tecnica è veramente un grande; aveva una memoria fotografica straordinaria che suppliva alla mancanza di studi regolari, e non usciva mai di casa, neanche a fare la spesa, a prendere il pane, se non aveva sottobraccio un libro di pittura: però questa frequentazione assidua, costante, giornaliera con la pittura, il guardarla almeno attraverso i libri, ha fatto sì che veramente ne avesse una conoscenza sorprendente.

Che genere di pittura faceva?

Dal punto di vista tecnico, faceva una pittura molto legata alle tecniche antiche, per cui sulla tela il colore è materico perché dopo lo strato preparatorio cresce man mano che si dipinge, man mano che si va verso il chiaro c’è più colore; il suo fondo era sempre, come facevano i pittori classici, un fondo rosso scuro, e quando usava quel colore era il fondo stesso che faceva da colore. Era molto legato alla pittura dei macchiaioli, ma riusciva a fare qualsiasi cosa con qualsiasi materiale. Sono celeberrime le sue riproduzioni: riusciva a fare una riproduzione di un quadro classico in maniera sorprendente: veramente poteva fare il falsario, sarebbe stata la sua fortuna, perché diceva che bisognava provare quello che gli altri hanno fatto per capire. Ed era scrupolosissimo, per paura che ci fossero fraintendimenti scriveva sempre sul quadro, davanti e dietro: “È una riproduzione, fatta da me, Mario Rossi”, e quando l’aveva fatta e perché. E poi l’ho visto lavorare coi pennelli: all’inizio usava l’olio, poi lo disturbava la puzza dell’olio, delle trementine, e allora usava soprattutto colori acrilici, usava solo una marca, solo certi pennelli, era molto rigoroso; però l’ho visto fare delle cose straordinarie con le bombolette; e poi l’ho visto fare cose straordinarie con la scultura: qualsiasi cosa toccava riusciva a trasformarla in un messaggio d’arte.

E che soggetti dipingeva?

Il suo tema era quasi sempre la sua terra, anche se questo lo viveva come una pesantezza; in realtà lui usava una tecnica antica per fare delle cose modernissime. E sentiva come una sofferenza il fatto che la gente voleva da lui che dipingesse i paesaggi della campagna, le pecore, le mucche… in realtà era un pretesto: nel dipingere una pecora o una mucca o un paesaggio, dentro metteva la storia della pittura.

Dove si trovano le sue opere?

Qui in biblioteca abbiamo un’opera di scultura, ma se avete la voglia di fare una passeggiata qui a Cascia, c’è una delle opere più importanti sue: all’Hotel Cursula c’è un’opera davvero magistrale, forse l’opera più impegnativa della sua carriera, La locanda Giustini, fatta per un suo grande amico. Parte da un’immagine figurativa, poi dentro c’è la pittura di duemila anni, dalle pitture pompeiane a Chagall. Lui non perdeva mai niente, perché ogni cosa lo rimandava a una cosa che aveva visto e che quindi lo ispirava; aveva sempre in testa migliaia e migliaia di immagini, e quindi prendeva qualcosa da uno, qualcosa da un altro, ecc. L’aspetto formale era un pretesto per mettere dentro molto di più. Una cosa particolare di Mario è che lui non aveva mai perso la vocazione all’insegnamento, e ha sempre fatto l’insegnante gratuitamente, cioè ha sempre avuto dei ragazzini e bambini che volevano imparare a dipingere e lui vi impegnava molto del suo tempo, per cui dipingeva la notte, specialmente l’estate; e lui non voleva assolutamente essere pagato. E sono interessanti gli appunti, una scaletta per insegnare: partiva sempre dalla riproduzione, e ai bambini faceva riprodurre delle cartoline, e poi dava una serie di informazioni e di stimoli, storie di vita di vari pittori; con il suo atteggiamento da maestro dettava, faceva tenere un quadernino, ed era così piacevole, così affabulante che i ragazzini ci andavano volentieri; e lui teneva moltissimo a questa attività.

È mai uscito da Buda e da Cascia?

Certo, lui era molto ricercato, a Roma ci sono tanti dipinti suoi. Nella sua stanza aveva un foglio lungo, e ogni tanto lo allungava di un pezzo, con l’elenco di tutti quelli che gli chiedevano i quadri; magari una cosa la faceva in un giorno, e un’altra ci metteva cinque anni. E quando gli chiedevano qualcosa, lui non lo faceva subito, lo faceva quando si sentiva di farlo; magari il parroco gli chiedeva una pala d’altare, come quella bellissima che è a Santa Maria, o magari la banca locale che voleva anche aiutarlo perché capiva il valore di questa persona, e lui diceva di sì, e il foglio si allungava. Lui aveva una specie di studio in un prefabbricato messo a disposizione dal Comune di Cascia, e lì vicino c’erano le giostre: un ragazzetto di queste giostre aveva una rivista con la foto del suo attore preferito, gli ha chiesto di rifargli il ritratto, e Mario gliel’ha rifatto, una cosa splendida che chissà che fine ha fatto.

C’è ancora il suo studio nel capannone?

Lui aveva un mare di bozzetti, dalla prima idea tirava su un quadernino e poi man mano sviluppava, una quantità sconvolgente di proposte, e il suo studio era pieno, si camminava sopra questi fogli, cose iniziate, appena sbozzate, da finire, e tantissimi libri. Purtroppo, devo dire con rammarico che la famiglia non ha voluto tenere tutto questo materiale; avrei voluto fotografare tutto, mettere tutto in contenitori, ma si è perduto tutto. Questo era un materiale che testimoniava che lui era un grande ricercatore, per lui era una elaborazione continua, un continuo mettersi in discussione, e questo produceva le montagne di carte che stavano nel capannone, magari cadevano per terra e poi lui le andava a ricercare. Tutto questo purtroppo non c’è più, ed è veramente una grandissima perdita.