SOMMARIO                                 

Sulla ricerca della vita buona

Intervento di Giuseppe De Rita, con una lettera di Karl-Ludwig Schibel

Cari amici,
trovate in allegato la mia trascrizione della relazione di Giuseppe De Rita nell'ambito dei settimi
colloqui di Montegabbione il 30 maggio al castello di Montegiove, da lui autorizzata.
Mi sembrano importanti tre motivi, due dei quali ho cercato esporre in "Umbria capace di futuro" e
che sono stato felice sentire da  lui:

· Che ci sono vari sentieri di sviluppo fattibili per un dato territorio e che il compito dei promotori
dello sviluppo locale è di elaborare queste alternative, che cosa comportano e che cosa
escludono.
Solo sulla base di alternative elaborate e sostanziate è pensabile una partecipazione
come processo e non come procedura formale. Per la nostra zona De Rita già dà la risposta qual'è il sentiero indicato: l'Italia Centrale come capitale mondiale del leisure (diffficilmente traducibile: benessere, divertimento, ricreazione, buona vita).

· Lo sviluppo locale ha che vedere con delle scelte, che devono nascere da una comunità viva.
Scelte significa decidere a favore di certe attività e a sfavore di altre. Per prendere il mio esempio
negativo attuale (ma ci sarebbero tanti altri nella nostra zona): un megaparcheggio di camion
all'entrata di un paese a 15 km di distanza dall'autostrada manda il messaggio: ti trovi ancora
nell'hinterland dell'autostrada. Se vuoi vedere l'Umbria bella, dove vale la pena fermarsi,
devi continuare il tuo viaggio. La scelta di autorizzare il megaparcheggio inserisce il paese in una
logica di sviluppo pesante, che comunque non ha futuro nella nostra zona.

· Il suo punto centrale è il ruolo della comunità, come unica forza che può promuovere lo sviluppo
locale, o meglio delle comunità, perché indica molto chiaramente alla fine che l'Alto-Orvietano è
troppo piccolo come soggetto promotore di un progetto di sviluppo locale.


Di come arrivare dalle comunità tradizionali alla nuova comunità "riflessiva", che cerca di
individuare il proprio futuro in un processo di riflessione e sperimentazione, sarebbe un dibattito
da fare in seguito a questo contributo splendido di De Rita.

Grazie per la vostra presenza ai colloqui 2002 e a presto,

Karl-Ludwig
Schibel

 

Lo sviluppo locale fra storia e capacità innovativa:

 

Sulla ricerca della vita buona

Giuseppe De Rita, fondatore del CENSIS, è Presidente del CNEL

 

Da più di 40 anni mi occupo di sviluppo locale. Insieme a Giuliano Vecchi, che parlerà dopo di me, mi sento un
militante dello sviluppo locale, dello sviluppo dal basso. Ho lavorato, quando ero ragazzo, nei primi esperimenti
di lavoro in comunità nella periferia di Roma e ho poi sviluppato un’attenzione costante al problema della
dimensione locale dello sviluppo.

Lo sviluppo locale come ogni cosa richiede un minimo di focalizzazione. Quando un testo, un tema, un argomento
 va di moda, ci si carica tutto. È logico che ogni discorso sulle cose dipende dallo sguardo, dalla lingua di chi
costruisce il discorso. Facilmente succede che chi si prende il tema dello sviluppo locale ci mette dentro di tutto.
Uno dei problemi fondamentali quando parliamo di sviluppo, di identità locale, è capirci bene.
Perché se includiamo nel concetto, lo sviluppo industriale, lo sviluppo agrituristico, il ruolo della scuola, il ruolo
dell’integrazione degli stranieri, il ruolo dell’università e via di questo passo, alla fine succede quello che
abitualmente succede in Italia: le tematiche muoiono per bulimia. Si appesantiscono, diventano obese.

Molto spesso anche noi, penso all’amico Bonomi con cui ho scritto il libro sullo sviluppo locale, allarghiamo il
concetto; Bonomi ha tanto insistito sul "glocale", sul rapporto tra locale e globale, sapendo e conoscendo i pericoli
che se si mette la globalizzazione dentro il concetto dello sviluppo locale, la parola finisce per essere ancora più
stordente.

Lo sviluppo locale parte da un argomento preciso: l’identità originaria di quella realtà locale. Se c’è identità che fa
da motore, si può sperare di andare avanti, ma uno sviluppo locale artificiale non si costruisce. Ci deve essere una
forza dal basso. Faccio tre esempi:

Nelle mie prime esperienze di lavoro in comunità, come nel Progetto Abruzzo o alla Martella vicino Matera, erano
comunità artificiali, fatte di case popolari o di borgate create ex novo dalla riforma agraria e non siamo riusciti a
farci nulla. La ragione è che non c’era comunità. Non si fa lavoro di comunità senza comunità.
Non si fa sviluppo locale senza comunità locale.

Secondo esempio: quando negli anni tra il ’68 e il ’75 abbiamo scoperto come Censis il localismo industriale, i
distretti industriali, ci siamo accorti che Prato, Biella, Valenza Po, il 60% dell’industria italiana ad oggi sta nei 50
distretti industriali da Fabriano a Pesaro, da Schio a San Pietro a Natisona.
Questa crescita incredibile del distretto industriale che tutto il mondo viene a studiare, perché non si è mai visto
che più della metà della capacità industriale di un paese stia in 50 paesetti o paesini, in alcuni casi di pochissime
 migliaia di persone, si è radicato tutto in centri storici secolari. Castel San Giorgio in Provincia di Mantova, che
non raggiunge i 10.000 abitanti, produce il 35% di tutte le calze da donna prodotte all'anno nel mondo.
Lì dove non c’era storia non c’è stato sviluppo locale. Non c’è stato a Latina, dove abbiamo impegnato tanti soldi,
 non c’è stato nel sud perché le città del sud non erano comunità, ma erano grandi dormitori.

Terzo esempio per illustrare questo: nell’ultimo libro di Bonomi, "La comunità maledetta" si nota con sorpresa che
le comunità maledette dell’ex-Jugoslavia - maledette perché c’è stata la pulizia etnica, si sono ammazzati come
 bestie, hanno fatto genocidio – alla fine l’unica cosa che sanno fare è rifare comunità.
Queste comunità che sembravano la fonte dell’odio stanno diventando i piccoli nuclei di un nuovo modo di vivere
insieme. L’associazionismo, il volontariato, il rifacimento della scuola, l’assistenza ai feriti della guerra.
Dobbiamo accettare che la comunità è anche maledetta, ma che la comunità può superare la maledizione se ha
dentro una qualche forza di identità.

Perché ritorniamo in questo periodo alla realtà locale, ai problemi identitari? Perché l’identità alla fine resta l’unico
motore di un processo di sviluppo come il nostro, anche in un periodo di globalizzazione, di omogenizzazione
culturale, addirittura di omogeneizzazione alimentare, come diceva l'assessore Grossi, che ci potrebbe estraniare.
Il locale resta importante perché è luogo dell’identità; povera, basilare, fondamentale, rozza, però è così.

Noi italiani abbiamo perso, nei fatti, il fuoco di un’identità nazionale; c'è stato pompato troppo dentro.
Prima col Risorgimento, poi col Fascismo.
L’identità nazionale la sento, ma la sento di più in un Canto all'Italia di Petrarca o nel Discorso sui costumi italiani
di Leopardi, scritti prima della nascita dell’Italia come nazione, di quanto la sento nella retorica dell’inno cantato
dai calciatori. L’idea nazionale è ormai patrimonio comune, ma non ci dà spinta. Non basta per renderci capaci di
identità, non ci dà la forza di un’identità per costruire. Lo sviluppo locale non cresce dall’identità nazionale.

Secondo: abbiamo perso, per fortuna o sfortuna non lo so, le identità per appartenenza. Identità di classe, di
schieramento internazionale, occidentale, orientale, filo-sovietico, classe operaia, ceto medio, i partiti.
Quanta tensione civile, economica, sociale, di progresso è venuta dall’appartenenza! Quanta gente è diventata
altro, gridando: "sono classe operaia!". Sono diventati tutti piccoli borghesi, ma l’hanno fatto in nome di
un’appartenenza. Ricordo mia mamma che diceva orgogliosamente: "noi ceto medio". Se ci dicessimo fra di
noi: "noi ceto medio", non ci capiremmo più.

Da dove viene oggi l’identità, se non viene più da un’appartenenza nazionale, sociale o politica? Non voglio
offendere nessuno, ma vi rendete conto che negli ultimi quattro, cinque anni la parola popolo è stata attribuita a
pura comunicazione banale. Il popolo dei fax, il popolo dei girotondi, il popolo dei palavobis. Politicamente
sarà anche un’espressione fortissima, ma non chiamarla "popolo", perché non dà identità. La contiguità spaziale
di un carosello, di un girotondo, di un palavobis o la contiguità telematica del popolo dei fax o della
web-community dei pedofili non fa identità collettiva.

Quindi noi abbiamo una caduta di identità molto forte. Perché non abbiamo un’identità nazionale capace di
operare, non abbiamo più l’appartenenza. Abbiamo queste forme succedanee di contiguità spaziale o telematica
che però non fanno comunità. Da dove viene allora la comunità su cui si può costruire lo sviluppo.
Lo sviluppo lo si può calare dall’alto e dopo 10 mesi o 10 anni viene rigettato se non c’è una comunità che lo
accetta o che lo produce addirittura da dentro.

Nell’ultimo decennio abbiamo avuto questa tragedia della fine delle altre identità e della riduzione dell’identità a
fatto locale, che a mio avviso è un fatto positivo. In termini politici è stato tradotto dal leghismo.
Il localismo politico è diventato il leghismo, la politica bossiana. Il peggio del peggio. Rozzo, comunque "anti",
nemico, rivale. Il rischio è che il problema della comunità locale viene ridotto, come elemento identificante, alla
frase "sono lombardo". La lega ci ha fatto perdere 10 anni per la consapevolezza lucida e fredda che l’identità
locale è una cosa importante. Non è una barbaria folcloristica tipo Lega, parlare di localismo dell’identità, di
localismo dello sviluppo, di localismo della trasformazione, di localismo nella comunità non è una cosa brutta.
La dimensione dell’identità locale sta tornando non come unica, ma certamente come l’identità portante dei
prossimi anni, un elemento centrale del panorama.

Se leggete il nuovo libro di Antonio Baldassare, lui dice una cosa molto forte: noi pensiamo sempre al mondo
globale come un mondo internazionale, come un mondo interrazziale, interculturale, interetnico, multi-etnico,
multi-culturale, multi-razziale, multinazionale, ecc. Lui dice: "il mondo del futuro sarà multi-comunitario".
Non crediate alla società multietnica se non avete capito che la società multietnica si costruisce nella comunità
multietnica. Perché non esiste una Italia multietnica. Ci sarà tra dieci, trenta, cinquant’anni quando le singole
comunità arrivate a Montegabbione avranno fatto comunità multietnica, ma l’Italia sarà un paese multicomunitario,
non multietnico.

Vedete quindi come il lungo percorso dello sviluppo locale si identifica con il lavoro della comunità. È la comunità
che in qualche modo deve esprimere la sua forza o anche la sua debolezza, il suo ripiegamento su se stessa.
Non è detto che lo sviluppo locale debba per forza essere quello di Prato o di Biella, rampante, ruspante,
 arricchente. La comunità può anche scegliere delle forme diverse. Può scegliere, se ha chilometri di verde senza
interruzione, l’agriturismo, le vie del vino, dell’olio, può scegliere le cipolle di Cannara. Può scegliere la diversità,
 perché l’identità locale se diventa sviluppo locale è implicito rifiuto dell’omogeneizzazione.

Una gran parte dei libri sulla globalizzazione parlano della "MacDonaldizzazione" del mondo, che stiamo
diventando tutti tendenzialmente mangiatori di fast food. Non è assolutamente vero!
Un italiano mangia da MacDonalds in media due volte al mese. Il problema vero è che tutte le società complesse
hanno una fascia di omogeneizzazione: compriamo più o meno gli stessi detersivi e le stesse macchine, ma poi
scarichiamo tutta la nostra voglia di diversità tutta la nostra voglia di identità. Per cui a Roma ci sarà il MacDonald
ma ci sono anche 75 ristoranti esotici, da quello ecuadorennio a quello birmano, sempre pieni, perché la voglia di
diversità, lo sperimentarsi su una cosa diversa è fondamentale. E la comunità locale che non accetta che tutto sia
grande periferia urbana, grande industrializzazione, grande finanza, quello che viene chiamata oggi globalizzazione,
può scegliere la strada di diventare diversa.

Certo, ha ragione Schibel quando mette in evidenza la struttura demografica. Quando tra qui e Monteleone giri e
vedi solo vecchi, tutti oltre i 65 anni, è difficile domandarsi chi decide, chi porta avanti un disegno.
 Difficilmente quello gli viene dato da fuori, dall’inglese che compra la tenuta, dal tedesco che compra la villa, dal
romano che si fa il casale. Potrebbe essere diverso, voi conoscete la zona meglio di me, ma a naso si vede e si
sente. Alcune delle vocazioni precedenti sono perse, da quelle artigiane a quelle impiegatizie.
 I modelli precedenti vanno via, vanno via le caserme come nel caso di Orvieto, vanno via le grandi imprese e
nascono di nuove. Il problema è di seguire queste trasformazioni con attenzione e di elaborare un modello che in
qualche modo è un guanto che la comunità mette su se stessa. Non è un qualcosa che gli viene da fuori.

Anche il meccanismo culturale, e né parlava giustamente l’assessore Grossi, la scuola che diventa scuola della
comunità, non è più una scuola che trasmette un messaggio: il cittadino italiano deve essere così, l’italiano medio
deve sapere questa storia, conoscere questa geografia, deve sapere un po’ di latino – che era il modo precedente
di fare scuola. Era il plasmare un cittadino italiano medio. Oggi la scuola deve recuperare quella che una volta era
una sua mansione: dare il gusto di fare comunità. Tutto il sistema che abbiamo costruito sopra, il sistema
universitario, il sistema scuola, il sistema sanitario, tutti i sistemi nazionali, vanno fatti rifluire all’interno di una logica
 comunitaria.

Tutto ciò in un’area come questa significa sostanzialmente due cose. Avere un’attenzione ai processi che stanno
avvenendo in questo sistema. Nessuna comunità cresce se non ha coscienza del suo ambiente socio-economico.
Altrimenti diventa retorica, diventa giornaletto del paese o un libretto di ricordi storici. Se non ha coscienza della
sua dimensione economica non riesce ad avere questa funzione interna allo sviluppo locale.
Tutta l’Italia Centrale è in grande trasformazione. Come dice qualche grande esperto internazionale: l’Italia
Centrale sarà in futuro la capitale mondiale del leisure. Che significa il vivere bene, il mangiar bene, il divertirsi in
un rapporto serio con la natura, un turismo culturale ad alto livello, una cultura monumentale. La capitale mondiale
 del leisure, perché, come dicono costoro, qui c’è il maggiore valore aggiunto di questo settore.
 Quindi, le cave di Carrara o i jeansifici e le pelliccerie di Prato, o anche per certi versi gli scarpari di Macerata,
devono pensarci nel senso che la dimensione storica lenta della deriva di quest’area nell’Italia Centrale va verso
 una specie di maggiore leggerezza. Non hard, non l’industria hard, non l’attività produttiva hard, ma una sorta
di vita buona. Che cosa è la vita buona chiedeva Bergson. Non è altro che la ricerca della vita buona.
Quindi noi cerchiamo la vita buona e facciamo la vita buona.

Questo tipo di realtà, che va da Rimini a Cattolica con tutto "Il distretto di piacere" (altro libro di Bonomi), dà
lavoro allo stesso numero di occupati di tutti i distretti industriali del nordest. Naturalmente non cederei neppure
uno stabilimento di industria tradizionale, ma lentamente la logica della riorganizzazione va nella direzione del
leisure
, fare tanto agriturismo, percorsi del vino, itinerari dell'olio, distretti gastronomici, turistico-culturali.
Se questo è vero, la domanda diventa se questa comunità che certamente non è orfana del fordismo, nel senso
che qui gli stabilimenti industriali tradizionali non c’erano, sarà capace di re-interpretare il suo ruolo all’interno di
una logica dell’Italia Centrale come capitale del leisure?

Lì si pone il secondo problema, quello delle dimensioni. Non è dato di sapere, almeno a me, quale forza congenita
ha la comunità. Comunque quando parliamo della necessità di misura minima, di massa critica, parliamo di una
dimensione più vasta, dimensioni di organizzazione meno singolarmente paesane. Parlerà dopo Giuliano Vecchi,
con una lunga militanza sul campo, ormai quasi più lunga della mia, dei Gruppi di Azione Locale.
 Non avverto la logica dell’Alto Orvietano come comprensorio omogeneo, è sempre apparso troppo isolato e al
tempo stesso troppo tirato. Da una parte tirato verso Perugia, perché finita la collina, da Piegaro in poi si arriva in
20 minuti, dall’altra verso Cetona, trovando tra Chiusi e Fabro il grande tubo della comunicazione; legato a Terni
per ragioni anche formali di Provincia, e culturalmente all’orvietano perché in fondo la strada classica era quella,
l'ombro-casentinese passava di là.

Una comunità più ampia è necessaria, perché con ogni probabilità le singole comunità, perché sono vecchie,
perché sono piccole, perché hanno anche le loro pigrizie, non riusciranno nella formazione di un destino
comunitario. E anche quest’idea che l’Umbria deve diventare seconda casa dei romani non è un problema banale
di pura speculazione fondiaria, è un fatto reale, nel senso che la comunità probabilmente è incapace di definire
un proprio ruolo quando viene invasa e occupata in forma del tutto stravagante. Perché nelle seconde case gli
abitanti vivono 50 giorni all’anno, 60, 80 e non fanno comunità. Perché uno che arriva il sabato e la domenica non
fa comunità, ma al massimo si fa tagliare i cappelli dal barbiere dal quale se li faceva tagliare da bambino.

Il grande problema quindi è da una parte, se si vuole fare sviluppo locale, basarsi su una cultura comunitaria, su
un orgoglio comunitario, sull’identità comunitaria. Soltanto lì c’è il tondino di ferro su cui si può costruire qualcosa.
Se come singola comunità non si ha questa forza di identità e di alimentazione dello sviluppo - e come diceva la
vice presidente della Provincia di Terni, questa è una realtà di piccoli paesi – si deve andare verso discorsi
comprensoriali, di Gruppi di Azione Locale.

Su questo lascio la parola al mio amico Giuliano Vecchi.