Da più di 40 anni mi occupo di sviluppo locale. Insieme a
Giuliano Vecchi, che parlerà dopo di me, mi sento un
militante dello sviluppo locale, dello sviluppo dal basso. Ho lavorato,
quando ero ragazzo, nei primi esperimenti
di lavoro in comunità nella periferia di Roma e ho poi sviluppato un’attenzione
costante al problema della
dimensione locale dello sviluppo.
Lo sviluppo locale come ogni cosa richiede un minimo di
focalizzazione. Quando un testo, un tema, un argomento
va di moda, ci si carica tutto. È logico che ogni discorso sulle cose
dipende dallo sguardo, dalla lingua di chi
costruisce il discorso. Facilmente succede che chi si prende il tema dello
sviluppo locale ci mette dentro di tutto.
Uno dei problemi fondamentali quando parliamo di sviluppo, di identità
locale, è capirci bene.
Perché se includiamo nel concetto, lo sviluppo industriale, lo sviluppo
agrituristico, il ruolo della scuola, il ruolo
dell’integrazione degli stranieri, il ruolo dell’università e via di
questo passo, alla fine succede quello che
abitualmente succede in Italia: le tematiche muoiono per bulimia. Si
appesantiscono, diventano obese.
Molto spesso anche noi, penso all’amico Bonomi con cui ho
scritto il libro sullo sviluppo locale, allarghiamo il
concetto; Bonomi ha tanto insistito sul "glocale", sul rapporto
tra locale e globale, sapendo e conoscendo i pericoli
che se si mette la globalizzazione dentro il concetto dello sviluppo locale,
la parola finisce per essere ancora più
stordente.
Lo sviluppo locale parte da un argomento preciso: l’identità
originaria di quella realtà locale. Se c’è identità che fa
da motore, si può sperare di andare avanti, ma uno sviluppo locale
artificiale non si costruisce. Ci deve essere una
forza dal basso. Faccio tre esempi:
Nelle mie prime esperienze di lavoro in comunità, come nel
Progetto Abruzzo o alla Martella vicino Matera, erano
comunità artificiali, fatte di case popolari o di borgate create ex novo
dalla riforma agraria e non siamo riusciti a
farci nulla. La ragione è che non c’era comunità. Non si fa lavoro di
comunità senza comunità.
Non si fa sviluppo locale senza comunità locale.
Secondo esempio: quando negli anni tra il ’68 e il ’75
abbiamo scoperto come Censis il localismo industriale, i
distretti industriali, ci siamo accorti che Prato, Biella, Valenza Po, il
60% dell’industria italiana ad oggi sta nei 50
distretti industriali da Fabriano a Pesaro, da Schio a San Pietro a Natisona.
Questa crescita incredibile del distretto industriale che tutto il mondo
viene a studiare, perché non si è mai visto
che più della metà della capacità industriale di un paese stia in 50
paesetti o paesini, in alcuni casi di pochissime
migliaia di persone, si è radicato tutto in centri storici secolari.
Castel San Giorgio in Provincia di Mantova, che
non raggiunge i 10.000 abitanti, produce il 35% di tutte le calze da donna
prodotte all'anno nel mondo.
Lì dove non c’era storia non c’è stato sviluppo locale. Non c’è
stato a Latina, dove abbiamo impegnato tanti soldi,
non c’è stato nel sud perché le città del sud non erano
comunità, ma erano grandi dormitori.
Terzo esempio per illustrare questo: nell’ultimo libro di
Bonomi, "La comunità maledetta" si nota con sorpresa che
le comunità maledette dell’ex-Jugoslavia - maledette perché c’è stata
la pulizia etnica, si sono ammazzati come
bestie, hanno fatto genocidio – alla fine l’unica cosa che sanno
fare è rifare comunità.
Queste comunità che sembravano la fonte dell’odio stanno diventando i
piccoli nuclei di un nuovo modo di vivere
insieme. L’associazionismo, il volontariato, il rifacimento della scuola,
l’assistenza ai feriti della guerra.
Dobbiamo accettare che la comunità è anche maledetta, ma che la comunità
può superare la maledizione se ha
dentro una qualche forza di identità.
Perché ritorniamo in questo periodo alla realtà locale, ai
problemi identitari? Perché l’identità alla fine resta l’unico
motore di un processo di sviluppo come il nostro, anche in un periodo di
globalizzazione, di omogenizzazione
culturale, addirittura di omogeneizzazione alimentare, come diceva
l'assessore Grossi, che ci potrebbe estraniare.
Il locale resta importante perché è luogo dell’identità; povera,
basilare, fondamentale, rozza, però è così.
Noi italiani abbiamo perso, nei fatti, il fuoco di un’identità
nazionale; c'è stato pompato troppo dentro.
Prima col Risorgimento, poi col Fascismo.
L’identità nazionale la sento, ma la sento di più in un Canto all'Italia
di Petrarca o nel Discorso sui costumi italiani
di Leopardi, scritti prima della nascita dell’Italia come nazione, di
quanto la sento nella retorica dell’inno cantato
dai calciatori. L’idea nazionale è ormai patrimonio comune, ma non ci dà
spinta. Non basta per renderci capaci di
identità, non ci dà la forza di un’identità per costruire. Lo sviluppo
locale non cresce dall’identità nazionale.
Secondo: abbiamo perso, per fortuna o sfortuna non lo so, le
identità per appartenenza. Identità di classe, di
schieramento internazionale, occidentale, orientale, filo-sovietico, classe
operaia, ceto medio, i partiti.
Quanta tensione civile, economica, sociale, di progresso è venuta dall’appartenenza!
Quanta gente è diventata
altro, gridando: "sono classe operaia!". Sono diventati tutti
piccoli borghesi, ma l’hanno fatto in nome di
un’appartenenza. Ricordo mia mamma che diceva orgogliosamente: "noi
ceto medio". Se ci dicessimo fra di
noi: "noi ceto medio", non ci capiremmo più.
Da dove viene oggi l’identità, se non viene più da un’appartenenza
nazionale, sociale o politica? Non voglio
offendere nessuno, ma vi rendete conto che negli ultimi quattro, cinque anni
la parola popolo è stata attribuita a
pura comunicazione banale. Il popolo dei fax, il popolo dei girotondi, il
popolo dei palavobis. Politicamente
sarà anche un’espressione fortissima, ma non chiamarla
"popolo", perché non dà identità. La contiguità spaziale
di un carosello, di un girotondo, di un palavobis o la contiguità
telematica del popolo dei fax o della
web-community dei pedofili non fa identità collettiva.
Quindi noi abbiamo una caduta di identità molto forte.
Perché non abbiamo un’identità nazionale capace di
operare, non abbiamo più l’appartenenza. Abbiamo queste forme succedanee
di contiguità spaziale o telematica
che però non fanno comunità. Da dove viene allora la comunità su cui si
può costruire lo sviluppo.
Lo sviluppo lo si può calare dall’alto e dopo 10 mesi o 10 anni viene
rigettato se non c’è una comunità che lo
accetta o che lo produce addirittura da dentro.
Nell’ultimo decennio abbiamo avuto questa tragedia della
fine delle altre identità e della riduzione dell’identità a
fatto locale, che a mio avviso è un fatto positivo. In termini politici è
stato tradotto dal leghismo.
Il localismo politico è diventato il leghismo, la politica bossiana. Il
peggio del peggio. Rozzo, comunque "anti",
nemico, rivale. Il rischio è che il problema della comunità locale viene
ridotto, come elemento identificante, alla
frase "sono lombardo". La lega ci ha fatto perdere 10 anni per la
consapevolezza lucida e fredda che l’identità
locale è una cosa importante. Non è una barbaria folcloristica tipo Lega,
parlare di localismo dell’identità, di
localismo dello sviluppo, di localismo della trasformazione, di localismo
nella comunità non è una cosa brutta.
La dimensione dell’identità locale sta tornando non come unica, ma
certamente come l’identità portante dei
prossimi anni, un elemento centrale del panorama.
Se leggete il nuovo libro di Antonio Baldassare, lui dice
una cosa molto forte: noi pensiamo sempre al mondo
globale come un mondo internazionale, come un mondo interrazziale,
interculturale, interetnico, multi-etnico,
multi-culturale, multi-razziale, multinazionale, ecc. Lui dice: "il
mondo del futuro sarà multi-comunitario".
Non crediate alla società multietnica se non avete capito che la società
multietnica si costruisce nella comunità
multietnica. Perché non esiste una Italia multietnica. Ci sarà tra dieci,
trenta, cinquant’anni quando le singole
comunità arrivate a Montegabbione avranno fatto comunità multietnica, ma l’Italia
sarà un paese multicomunitario,
non multietnico.
Vedete quindi come il lungo percorso dello sviluppo locale
si identifica con il lavoro della comunità. È la comunità
che in qualche modo deve esprimere la sua forza o anche la sua debolezza, il
suo ripiegamento su se stessa.
Non è detto che lo sviluppo locale debba per forza essere quello di Prato o
di Biella, rampante, ruspante,
arricchente. La comunità può anche scegliere delle forme diverse.
Può scegliere, se ha chilometri di verde senza
interruzione, l’agriturismo, le vie del vino, dell’olio, può scegliere
le cipolle di Cannara. Può scegliere la diversità,
perché l’identità locale se diventa sviluppo locale è implicito
rifiuto dell’omogeneizzazione.
Una gran parte dei libri sulla globalizzazione parlano della
"MacDonaldizzazione" del mondo, che stiamo
diventando tutti tendenzialmente mangiatori di fast food. Non è
assolutamente vero!
Un italiano mangia da MacDonalds in media due volte al mese. Il problema
vero è che tutte le società complesse
hanno una fascia di omogeneizzazione: compriamo più o meno gli stessi
detersivi e le stesse macchine, ma poi
scarichiamo tutta la nostra voglia di diversità tutta la nostra voglia di
identità. Per cui a Roma ci sarà il MacDonald
ma ci sono anche 75 ristoranti esotici, da quello ecuadorennio a quello
birmano, sempre pieni, perché la voglia di
diversità, lo sperimentarsi su una cosa diversa è fondamentale. E la
comunità locale che non accetta che tutto sia
grande periferia urbana, grande industrializzazione, grande finanza, quello
che viene chiamata oggi globalizzazione,
può scegliere la strada di diventare diversa.
Certo, ha ragione Schibel quando mette in evidenza la
struttura demografica. Quando tra qui e Monteleone giri e
vedi solo vecchi, tutti oltre i 65 anni, è difficile domandarsi chi decide,
chi porta avanti un disegno.
Difficilmente quello gli viene dato da fuori, dall’inglese che
compra la tenuta, dal tedesco che compra la villa, dal
romano che si fa il casale. Potrebbe essere diverso, voi conoscete la zona
meglio di me, ma a naso si vede e si
sente. Alcune delle vocazioni precedenti sono perse, da quelle artigiane a
quelle impiegatizie.
I modelli precedenti vanno via, vanno via le caserme come nel caso di
Orvieto, vanno via le grandi imprese e
nascono di nuove. Il problema è di seguire queste trasformazioni con
attenzione e di elaborare un modello che in
qualche modo è un guanto che la comunità mette su se stessa. Non è un
qualcosa che gli viene da fuori.
Anche il meccanismo culturale, e né parlava giustamente l’assessore
Grossi, la scuola che diventa scuola della
comunità, non è più una scuola che trasmette un messaggio: il cittadino
italiano deve essere così, l’italiano medio
deve sapere questa storia, conoscere questa geografia, deve sapere un po’
di latino – che era il modo precedente
di fare scuola. Era il plasmare un cittadino italiano medio. Oggi la scuola
deve recuperare quella che una volta era
una sua mansione: dare il gusto di fare comunità. Tutto il sistema che
abbiamo costruito sopra, il sistema
universitario, il sistema scuola, il sistema sanitario, tutti i sistemi
nazionali, vanno fatti rifluire all’interno di una logica
comunitaria.
Tutto ciò in un’area come questa significa
sostanzialmente due cose. Avere un’attenzione ai processi che stanno
avvenendo in questo sistema. Nessuna comunità cresce se non ha coscienza
del suo ambiente socio-economico.
Altrimenti diventa retorica, diventa giornaletto del paese o un libretto di
ricordi storici. Se non ha coscienza della
sua dimensione economica non riesce ad avere questa funzione interna allo
sviluppo locale.
Tutta l’Italia Centrale è in grande trasformazione. Come dice qualche
grande esperto internazionale: l’Italia
Centrale sarà in futuro la capitale mondiale del leisure. Che
significa il vivere bene, il mangiar bene, il divertirsi in
un rapporto serio con la natura, un turismo culturale ad alto livello, una
cultura monumentale. La capitale mondiale
del leisure, perché, come dicono costoro, qui c’è il
maggiore valore aggiunto di questo settore.
Quindi, le cave di Carrara o i jeansifici e le pelliccerie di Prato, o
anche per certi versi gli scarpari di Macerata,
devono pensarci nel senso che la dimensione storica lenta della deriva di
quest’area nell’Italia Centrale va verso
una specie di maggiore leggerezza. Non hard, non l’industria hard,
non l’attività produttiva hard, ma una sorta
di vita buona. Che cosa è la vita buona chiedeva Bergson. Non è altro che
la ricerca della vita buona.
Quindi noi cerchiamo la vita buona e facciamo la vita buona.
Questo tipo di realtà, che va da Rimini a Cattolica con
tutto "Il distretto di piacere" (altro libro di Bonomi), dà
lavoro allo stesso numero di occupati di tutti i distretti industriali del
nordest. Naturalmente non cederei neppure
uno stabilimento di industria tradizionale, ma lentamente la logica della
riorganizzazione va nella direzione del
leisure, fare tanto agriturismo, percorsi del vino, itinerari
dell'olio, distretti gastronomici, turistico-culturali.
Se questo è vero, la domanda diventa se questa comunità che certamente non
è orfana del fordismo, nel senso
che qui gli stabilimenti industriali tradizionali non c’erano, sarà
capace di re-interpretare il suo ruolo all’interno di
una logica dell’Italia Centrale come capitale del leisure?
Lì si pone il secondo problema, quello delle dimensioni.
Non è dato di sapere, almeno a me, quale forza congenita
ha la comunità. Comunque quando parliamo della necessità di misura minima,
di massa critica, parliamo di una
dimensione più vasta, dimensioni di organizzazione meno singolarmente
paesane. Parlerà dopo Giuliano Vecchi,
con una lunga militanza sul campo, ormai quasi più lunga della mia, dei
Gruppi di Azione Locale.
Non avverto la logica dell’Alto Orvietano come comprensorio
omogeneo, è sempre apparso troppo isolato e al
tempo stesso troppo tirato. Da una parte tirato verso Perugia, perché
finita la collina, da Piegaro in poi si arriva in
20 minuti, dall’altra verso Cetona, trovando tra Chiusi e Fabro il grande
tubo della comunicazione; legato a Terni
per ragioni anche formali di Provincia, e culturalmente all’orvietano
perché in fondo la strada classica era quella,
l'ombro-casentinese passava di là.
Una comunità più ampia è necessaria, perché con ogni
probabilità le singole comunità, perché sono vecchie,
perché sono piccole, perché hanno anche le loro pigrizie, non riusciranno
nella formazione di un destino
comunitario. E anche quest’idea che l’Umbria deve diventare seconda casa
dei romani non è un problema banale
di pura speculazione fondiaria, è un fatto reale, nel senso che la
comunità probabilmente è incapace di definire
un proprio ruolo quando viene invasa e occupata in forma del tutto
stravagante. Perché nelle seconde case gli
abitanti vivono 50 giorni all’anno, 60, 80 e non fanno comunità. Perché
uno che arriva il sabato e la domenica non
fa comunità, ma al massimo si fa tagliare i cappelli dal barbiere dal quale
se li faceva tagliare da bambino.
Il grande problema quindi è da una parte, se si vuole fare
sviluppo locale, basarsi su una cultura comunitaria, su
un orgoglio comunitario, sull’identità comunitaria. Soltanto lì c’è
il tondino di ferro su cui si può costruire qualcosa.
Se come singola comunità non si ha questa forza di identità e di
alimentazione dello sviluppo - e come diceva la
vice presidente della Provincia di Terni, questa è una realtà di piccoli
paesi – si deve andare verso discorsi
comprensoriali, di Gruppi di Azione Locale.
Su questo lascio la parola al mio amico Giuliano Vecchi.