Il giorno più lungo
della mia vita
(testimonianza raccolta da Maria Mastriforti Romeggini)
Avevo diciassette anni
quando con la mia famiglia sfollai a Selci Umbro, ma nei primi giorni dell’avvicinamento
del fronte
ci trasferimmo ai Renzetti, precisamente alla Capitanata e lì rimanemmo
per un mese circa vicino a una batteria di cannoni
tedeschi. Per fortuna eravamo riparati da un’altura, situata davanti
alla casa, e, nonostante i continui cannoneggiamenti tra
Tedeschi e Angloamericani, non venivamo colpiti proprio per questa
protezione naturale.
Quando sapemmo che Città
di Castello era stata liberata dagli Angloamericani, decidemmo insieme ad
altre persone
castellane, sfollate vicino a noi, di ritornare in città attraversando le
linee del fronte. Infatti una mattina, una decina di persone,
in fila indiana, ci avviammo attraverso i campi, evitando qualsiasi
strada, anche secondaria, per paura di essere mitragliati.
Ad un certo punto ci trovammo proprio in mezzo al fronte e precisamente in
una zona, dove la battaglia infuriava più violenta
con cannoneggiamenti da ambo le parti. Dovemmo rifugiarci in una
casa colonica, dentro una stalla, e lì ci trattenemmo per
circa un’ora in attesa che lo scontro cessasse.
Approfittando di un attimo
di tregua ci rimettemmo immediatamente in cammino, sempre in fila indiana,
dietro mio padre
che con la massima cura sceglieva dove mettere i piedi a causa del
terreno minato. Noi lo seguivamo, facendo molta
attenzione a mettere i nostri piedi sulle sue impronte.
A un certo punto
incontrammo quattro Tedeschi; trasportavano in una barella un loro
camerata, che era stato colpito da una
mina. Ricordo particolarmente questo fatto perché vidi il giovane
soldato in fin di vita, mentre i suoi compagni alzavano una
bandiera bianca con una croce rossa bene in vista davanti alla barella.
Finalmente giungemmo ad una
strada bianca e lì ad un centinaio di metri trovammo un carro armato
inglese.
Ci sentimmo finalmente liberati dalla paura di questo giorno terribile e
tremendamente lungo che ci aveva fatto temere per
la vita. Gli alleati ci accolsero gioiosamente gettandoci cioccolate e
sigarette per risollevare il nostro morale.
Ricordi della mia
adolescenza, che vanno dal 1940 al 1944: tutto il tempo della guerra
(Testimonianza scritta di Zelmira
Esposito)
Avevo allora 14 anni ed una
esuberanza e una voglia di vivere superiore alla media, quando scoppiò la
seconda guerra
mondiale. Ero e per fortuna sono la prima di sei figli fra fratelli e
sorelle. Avevo un angelo di padre che adorava i suoi sei figli
come non potevo immaginare (…).
Noi abitavamo a fianco del
Duomo di fronte al Giardino del Cassero nella casa della Curia all’inizio
della Pendinella. Il 2° piano
era occupato dal Prevosto Ranieri e dalla sua nepote. In tempo di
guerra questo grande appartamento fu quasi tutto requisito
dai tedeschi e vi fu installato il Quartier Generale. Ricordo che mio
padre geloso come era dei figli a me e mia sorella che
eravamo le più grandicelle ci teneva quasi sempre in casa per la paura
che questi tedeschi ci molestassero.
Ma un giorno un tedesco
alla guida di un piccolo carro armato volle a tutti i costi infilarsi
dentro il nostro portone con tutto il
carro armato. Forse cercava di nascondersi o era irritato. Premetto che il
nostro appartamento era quasi al piano terreno e la
porta di ingresso era larga quanto quella di un garage. Così a mio padre
toccò il compito di tenere la guardia a questo tedesco
fino a che non si fosse deciso ad andarsene per non farlo entrare in
casa, perché bastava che facesse tre scalini che ce lo
avremmo trovato davanti. Così mio padre ci chiuse in camera e lui passò
tutto il pomeriggio con questo tedesco dentro
l’ingresso perché non voleva andarsene. Per fortuna con la persuasione
lo convinse: gli disse che gli inglesi erano vicini e che
per lui era meglio se si fosse allontanato, e quando sentimmo il rumore
dei cingoli capimmo che eravamo salvi. Ricordo che
lasciò a mio padre per il disturbo un sacchetto di caramelle quale
ricompensa dello scomodo, e noi bambini ne facemmo
razzia dato che era tanto che non ne vedevamo.
Un altro episodio che
ricordo fu quando mio fratello Costante che aveva 11 anni si affacciò
alla porta di casa ed in quel
momento passava un tedesco con un sacco sulle spalle pieno di
qualche cosa. Quando vide questo ragazzino, lo chiamò,
gli caricò il sacco sulle spalle e lo portò con lui a forza di caman
caman. Appena mio padre se ne accorse lo inseguì, lo
raggiunse alla fine della Pendinella e si offrì al tedesco al posto del
figlio e mio fratello così tornò di corsa a casa. Intanto con
il tedesco mio padre era arrivato al Ponte del Tevere sempre col sacco in
spalla. La faccenda poteva complicarsi, deve aver
pensato lui. Allora ebbe un lampo di genio, così a me era sembrato. Si
finse infelice e camminava dietro al tedesco
trascinando una gamba vistosamente. Il tedesco, che aveva gran fretta,
continuava a ripetergli caman caman, ma mio padre
faceva orecchi da mercante, fingeva di non capire fintanto che il tedesco
gli strappò con rabbia la balla dalle spalle, facendola
cadere, essa allora si aprì, così poté vedere il contenuto del sacco.
Vi erano delle galline morte, alle quali era stata mozzata
la testa. Ma non ebbe il tempo di soffermarsi a lungo a chiedere
spiegazioni, perché fece un bel dietro front e zoppando
zoppando, quando fu lontano dalla vista del tedesco si mise a correre per
tornare in seno alla famiglia (…).
Un’altra cosa che ricordo
quando sfollammo, mio padre e mia madre caricarono un carretto a mano con
tutto quello che
potevano caricare e ci incamminammo a piedi ai Badiali. Ci sistemammo in
casa di una famiglia di contadini; ci alloggiammo
nel granaio e rimanemmo lì una ventina di giorni, ma nonostante ci
avessero accolto con grande amore e amicizia non
abbiamo resistito oltre e un bel giorno i miei ricaricarono il carretto e
tornammo in città. Noi in famiglia eravamo in dieci
perché si erano aggiunti a noi anche i nonni e tutti in quel granaio era
una vita quasi infernale. Tornati a casa, durante il
giorno si stava quasi sempre chiusi e la notte si andava a dormire nella
Sacrestia del Duomo con il compianto don Topi,
il prevosto Ranieri (noi lo chiamavamo così), la nepote Francesca ecc.
Eravamo in tutti una ventina di persone fra grandi e
piccoli. Si dormiva sul pavimento con qualche coperta e ci si coricava
vestiti tutti su questo ambiente, perché dicevano i
grandi che questo era il posto più sicuro dalle bombe (…).
Un altro ricordo è quando
per carnevale a me e ad alcune compagne di scuola ci venne in mente di
fare le castagnole, ma
non avendo la materia prima decidemmo di portare via da casa quello che
era necessario per confezionarle e quello che si
avrebbe trovato, così raccimolammo farina, uova, però nessuno di noi
aveva l’olio per friggerle. Fu allora che mi ricordai che
mia madre, dopo aver cucinato e fritto qualcosa, l’olio lo conservava in
un grosso recipiente di vetro per riusarlo ancora.
Lo presi, lo portai a casa di Rosetta, la mia compagna di scuola, e
tutte insieme cominciammo a preparare queste
castagnole: ora gli ingredienti li avevamo tutti, ma mancava l’esperienza
e dopo tanto lavoro riuscimmo a fare più che le
castagnole delle palle dure che sembravano palle di biliardo ed erano
immangiabili, ma credetemi, noi un po’ per fame un po’
per l’allegria di essere assieme a fare festa ci sembravano deliziose,
nonostante fossero state fritte con quell’olio che
nemmeno per ungere il motore di una macchina sarebbe stato da adoperare.
E intanto gli anni
passavano e la guerra continuava. Avevo già 16 anni e tanta voglia di
divertirmi; ne avevo abbastanza della
guerra e dell’austerità. Quando, sempre per carnevale, alcune compagne
mi informarono che vicino a casa dei miei nonni e
precisamente al Fungo, una casa che si trova vicino all’Asilo Cavour, si
allestiva una serata da ballo al suono di una vecchia
fisarmonica e mi chiesero se volevo partecipare anch’io. In casa i miei
genitori erano molto severi e non mi avrebbero mai dato
il permesso, così escogitai uno strattagemma. Chiesi a loro se
quella sera potevo andare a dormire dai miei nonni e non
sospettando nulla mi dissero di sì e mi accompagnarono. Aspettai che i
miei nonni si fossero addormentati e quando sentii
le mie amiche sotto casa che mi chiamavano, mi vestii in fretta e con le
scarpe in mano e con un gran batticuore per la paura
che si svegliassero (era la prima scappatella della mia vita) così
scalza in pieno inverno uscii per andare al ballo. La sala era
uno stanzone; mettemmo i mobili e le sedie tutto da un lato, per
fare spazio per ballare con la musica in sordina e al lume di
candela, affinché fuori non vedesse e non si sentisse. Eravamo
tutte ragazzine, ma cercavamo in qualche maniera di
ascoltare un po’ di musica e stare assieme. Soprattutto per dimenticare
gli orrori che ci circondavano. Ma questo tempo di
rilassamento fu breve e appena finì ci apprestammo per tornare a casa,
eravamo quasi arrivate quando sentimmo dei passi
cadenzati e allora in un batter d’occhio il gruppo sparì e si
sciolse come neve al sole, e andammo a ripararci nei diversi
portoni che trovammo che a quell’ora lasciavano aperti.
Io ricordo che con un’altra
amica mi rifugiai dentro il portone del Palazzo Bruni per il Corso. Ci
appiattimmo in attesa che si
allontanassero quei passi. La paura di uscire era tanta, rimanemmo lì
più di un’ora al buio, al freddo e mezze morte di paura.
Quando ci rendemmo conto che era la Ronda e che l’avremmo fatta grossa
perché c’era il coprifuoco e potevamo finire in
guardina, ci mettemmo a piangere cercando di consolarci a vicenda, ma non
sapevamo più cosa fare.
Per fortuna quando non sentimmo più alcun rumore uscimmo con il cuore in
gola. Ora il peggio era rientrare: e se i nonni si
fossero svegliati? e si erano accorti che io non ero a letto? Quali
conseguenze mi sarebbero aspettate? E piano piano,
sempre senza scarpe, entrai in casa; sentii che loro dormivano
saporitamente; io ebbi il tempo di entrare a letto e rifugiarmi
fra le coperte e loro non seppero mai niente.
Questa era la nostra
adolescenza, che ha durato quattro lunghissimi anni. Io ringrazio chi mi
ha dato la possibilità di ricordare
queste cose, perché ho rivisto come un film tutte le persone care
di quel tempo. Non posso dire di provare nostalgia, perché
fu un periodo triste, brutto, ingiusto. Tuttavia lo rivivo quasi con
affetto, con tenerezza, perché allora ogni cosa contava e come
contava!
Città di Castello, 1 marzo 1995
Esposito Zelmira