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O che bel castello
Intervista
a Claudio Pesaresi
Mi
trovo per questa conversazione amichevole con Claudio Pesaresi, tra i
fondatori e attuale
presidente dell’Associazione teatrale “Al Castello”, nella sede
dell’Associazione, in Vicolo Nicolò
Alunno 34. Qui tutto parla di teatro: i testi nelle librerie, i
riconoscimenti in bella vista, alcuni pezzi
di mobilio restaurati, che fanno pensare a certe scenografie di opere di
fine ottocento.
I rumori esterni arrivano attutiti, proprio come dietro al palcoscenico, da
dove i tecnici nascosti
“indovinano” l’attitudine del pubblico in sala. Recito la parte
del giornalista con questo Signore
del teatro folignate.
Mi
piacerebbe ripercorrere la storia della nascita dell’Associazione Teatrale
“Al Castello”: qual è
stata la molla iniziale che vi ha spinto?
L’associazione “Al Castello” nasce nel 1990 su idea
mia, di Costantino Muzi e Goffredo Strappini
per continuare l’attività di una Compagnia di cui facevo parte, “Il
teatrino del Circolo”, fondata da un
carissimo amico, regista e attore che molti ricordano a Foligno: Mauro
Antonini. Folignate di
nascita, era stato in una compagnia di professionisti, ma i genitori non
avevano assolutamente
voluto che lui facesse l’attore. Si era trasferito a Spoleto, ma era
nostalgico dell’atmosfera di
Foligno. Arrivava alle sette e mezza, girava tutti i vicoli di Foligno e
alle nove veniva a fare le prove.
Quando purtroppo nel 1988 morì, si cercava chi potesse sostituirlo nella
conduzione di questa
compagnia. Dopo alcune titubanze e rifiuti da parte mia perché io sono un
tipo che si avvicina con
una certa circospezione alle cose, vuole essere sicuro di saperle fare,
nascono i primi spettacoli,
nel ’91, ’92. Ultimamente Antonini si era dedicato al teatro dialettale,
noi siamo tornati al teatro
classico.
Il
repertorio della Compagnia è molto variato: quali sono i criteri di
selezione delle opere?
Non
c’è un vero e proprio criterio: io ho rifiutato di fare l’attore
professionista anche perché da
amatore posso mettere in scena i testi che mi piacciono, e non è che ce ne
siano tantissimi: anch’io
tra gli altri ritengo che le cose migliori in teatro purtroppo sono già
state scritte. La gente ancora
capace di scrivere buoni testi è orientata verso altri generi più
commerciali, che diano guadagni
più consistenti. Se scrivi la sceneggiatura per una fiction, che richiede
molte storie in tempi brevi,
chiaramente non puoi creare qualcosa di grande valore artistico.
Da
allora sono passati diversi anni, e la Compagnia ha continuato a produrre
spettacoli di
qualità e a crescere artisticamente, come testimoniano i sempre più
numerosi
riconoscimenti in ambito nazionale: quali sono gli ingredienti che
consentono di
raggiungere questi risultati?
Penso
che risieda nel considerare il livello raggiunto nell’ultimo spettacolo
come il punto di partenza
per quello successivo, in modo da non essere mai appagati. Questo è un
campo infinito, dove
nessuno potrà mai dire di aver imparato tutto: tanto noi, nel nostro
piccolo, quanto i grandi.
E non lo dico io che sono un modesto regista di teatro amatoriale, ma lo
dicevano Gassman,
Strehler, Ronconi… Qualche spettacolo inoltre è stato scelto per
invogliare persone che non hanno
mai frequentato i teatri a venire, magari con spettacoli più leggeri come
“Niente da dichiarare”,
un vaudeville basato sulla commedia degli equivoci. Al successivo
spettacolo, “La casa di Bernarda
Alba”, qualcuno non era magari molto convinto, ma molti hanno
“scoperto” il teatro serio.
E
a livello di rapporti nel gruppo? Quanto è importante il gruppo?
Per
me è diventato ancora più coinvolgente da quando Rossana fa parte della
compagnia in modo
così significativo e quando poi ultimamente Nicola, il mio figlio minore,
è entrato anche lui nella
compagnia; questo mi gratifica, anche perché spesso quando si fanno queste
attività i familiari non
sono molto partecipi: è successo con persone del nostro gruppo. Al livello
personale, ad ogni
spettacolo aumenta la conoscenza con gli altri partecipanti e la
collaborazione nel risolvere tutte le
problematiche che comporta la messa in scena. Certamente è importante per
una compagnia
amatoriale avere nel proprio organico persone che non siano soltanto attori,
ma collaborino come
staff tecnico. Una compagnia come la nostra non può prescindere da un
Massimo Rindi, da uno
Strappini, da Clara Fuccelli, da Rossana Franceschini, da Loretta Ottaviani,
figure queste che sono
utilissime. Io ho visto molti spettacoli belli che però avevano magari
delle luci non adatte, o
scenografie modeste; può darsi che anche alcune delle nostre scelte non
siano all’altezza, ma penso
che bene o male in tutte le componenti, dalla scelta delle musiche alla
scelta dei costumi, alle luci, ci
sia una certa attenzione, la cura dei particolari. Non tutti possono
percepire queste cose, ma a noi
piace farle così, anche perché cerchiamo comunque di offrire spettacoli di
una certa qualità.
L’importante per noi è non creare una filodrammatica. La filodrammatica
ha un organico di dieci
persone che interpretano le parti più importanti; io sono convinto che ogni
attore può interpretare una
determinata gamma di ruoli; è quindi positivo avere un ricambio di attori
per avere sempre i più
adatti per ogni parte.
Parlaci
dei lati positivi e negativi dell’essere regista.
Il
regista è il primo che deve entrare nel personaggio, che è chiuso in un
mondo completamente suo,
per poi trasmetterlo e mediarlo con l’”io” dell’attore: è questo il
triangolo dal quale il personaggio
nasce. Poi nel bene e nel male lo spettacolo lo fa il regista: l’impronta,
i tempi, i ritmi sono tutti dettati
dalla sua visione. Non è detto che grandi attori messi insieme facciano un
grande spettacolo.
Ciò comporta difficoltà nell’allestimento, specialmente quando devi
lavorare con gente che non ha
mai recitato. Un aspetto negativo del lavoro di un regista amatoriale è
quello di insegnare a molta
gente a recitare per poi magari vederla perdersi per strada nel giro di
pochi anni per fidanzamenti,
sposalizi, gravidanze ecc.… proprio quando si potrebbero raccogliere i
frutti. In realtà trovare le attrici
è più semplice. Le donne hanno una sensibilità maggiore. Forse
dipende anche dal tipo di
recitazione che io voglio: qualcosa che venga da dentro e che non sia
appiccicato, e la donna
probabilmente è quella che scava più dentro di sé e non ha remore a tirar
fuori se stessa; l’uomo
invece è più duro da questo punto di vista, bisogna faticare di più.
Inoltre, mentre quasi tutte le donne
hanno qualcosa da tirare fuori, l’uomo tende a nascondersi, magari anche a
se stesso, così il
potenziale dell’attore spesse volte non viene fuori per la resistenza
dell’uomo che non vuole
“concedersi”. D’altra parte, se le incombenze del regista sono
maggiori, anche di quelle degli attori,
perché il regista in fondo è quello che firma, quando poi lo spettacolo
riesce ad avere un aspetto
unitario ed ottiene consenso “di pubblico e di critica”, come si dice,
la gratificazione è per tutti, ma
soprattutto per chi se ne è assunto le responsabilità.
L’attività
teatrale attira molte persone, come vediamo anche dall’alta affluenza ai
vostri
e altrui corsi propedeutici di recitazione: in cosa consiste secondo te il
“fascino del
palcoscenico”?
Io
penso che ognuno di noi, chi più chi meno, abbia voglia di esibirsi. Questo
sin da bambini: il gioco
è già rappresentazione spontanea. Quando i bambini giocano agli indiani, sono
veramente degli
indiani. Magari gli attori avessero la stessa spontaneità dei bambini! Si
toglierebbero di dosso tutti
quegli impedimenti verso l’entrare nel personaggio. Comunque ci sono due
componenti fondamentali
che spingono sul palcoscenico: il desiderio di mostrarsi e il
desiderio di comunicare, di dire qualche
cosa. Entrambe sono sempre presenti, ma personalmente preferisco che sia
preponderante la
componente comunicativa, perché qui sta la differenza tra un attore che
“recita” e un attore che “vive”
la parte. Purtroppo oggi conta molto apparire, e meno sentire.
Cosa
ne pensi delle “applicazioni” della recitazione nelle scuole o in
psicologia?
Per
quanto riguarda il discorso scolastico, i bambini, come ho detto prima,
giocano recitando, e non
è difficile fare teatro con loro: basta lanciare degli imput e raccogliere
il frutto della loro immaginazione.
L’importante è che finché sono bambini piccoli non vengano fatte
delle selezioni, ma che tutti
partecipino agli spettacoli. Solo quando sono in grado di porsi criticamente
verso le differenze
individuali, si possono scegliere e indirizzare alcuni allo sport ad
esempio, oppure verso altre attività,
tra cui il teatro. Se l’attività teatrale è portata avanti da chi lo sa
fare, ha degli effetti estremamente
positivi, sia nelle scuole che in campo psicologico.
E
per quanto riguarda l’utilizzazione nelle campagne di sensibilizzazione o
diffusione di tematiche
politico-sociali?
Io
non sono d’accordo con prediche e comizi. Eventuali messaggi devono uscire
fuori direttamente
dalla storia. Ad esempio “La casa di Bernarda Alba” ha un incredibile
contenuto politico.
È vero che non è sempre facile individuare la lettura politica di
un’opera, ma questo succederebbe
anche con testi più espliciti. L’artista è colui che crea qualcosa dove
tu puoi leggere diversi livelli,
per chi è in grado di recepirle. Quindi sarebbe meglio “educare” al
teatro. È importante che quando gli
insegnanti portano i ragazzi a teatro, cerchino anche di spiegare il
linguaggio letterario e scenico del
teatro: abbiamo preso ad esempio “La Casa di Bernarda Alba” che può
essere letto come semplice
storia d’amore e di gelosia, oppure come emarginazione delle minoranze di
fronte al potere, o ancora
come analisi dei vari livelli di sudditanza. In pratica, il messaggio non
deve essere reso in maniera
troppo esplicita: è il testo stesso che deve comunicare certe cose, e non
deve essere piegato o
creato come pura ed esplicita esposizione di idee.
Come
è in generale il vostro rapporto con il territorio, le istituzioni e il
vostro pubblico?
Come
Compagnia siamo tra i pochi che hanno un grosso seguito. Costantino dice che
“coccoliamo”
il nostro pubblico.
In realtà abbiamo cominciato a crearci un pubblico in un modo che ritengo
abbastanza intelligente:
abbiamo distribuito nei primi spettacoli un questionario chiedendo se lo
spettacolo era più o meno
piaciuto, e pregando di indicarci altre persone che gradivano il genere
teatrale.
Così abbiamo costruito un primo indirizzario, e adesso la gente ci ferma
per strada per prenotare
oppure ci contatta direttamente. A Trevi poi offriamo una bella accoglienza,
con pasticcini e un
bicchiere di spumante.
Il rapporto è ottimo con il Comune di Trevi: ci sono riconoscenti perché
secondo loro, con “Trevi alle
Cinque” abbiamo fatto da traino alla loro stagione professionistica. Anche
a Bevagna, Spello e
i comuni limitrofi lavoriamo bene. Dal comune di Foligno abbiamo una
sovvenzione minima, ma
quello che non condivido è il fatto che il comune dia la stessa sovvenzione
a tutte le associazioni
culturali senza distinzioni tra chi fa uno spettacolo ogni cinque anni e noi
che facciamo uno o due
spettacoli all’anno con trenta /quaranta repliche.
Purtroppo non siamo riusciti ad ottenere quello che volevamo dal Comune di
Foligno, e cioè uno
spazio per il teatro amatoriale. In Italia esistono comuni particolarmente
sensibili all’attività amatoriale,
e quindi le compagnie possono crescere. Non vediamo a Foligno questa volontà,
l’attività amatoriale
è un po’ snobbata. Avevamo ad esempio proposto all’assessore alla
cultura di fare degli spettacoli
estivi o di mezza estate in cui ogni compagnia gestisse per una quindicina
di giorni un chiostro o uno
spazio, ma non è stata accolta. Inoltre organizziamo interventi nelle
scuole, per alunni e insegnanti,
e sosteniamo altre associazioni con spettacoli di beneficenza. Intendo
beneficenza totale, perché
secondo noi la beneficenza deve comportare anche una rimessa.
Cosa
bolle in pentola?
Adesso abbiamo questo “Arsenico e vecchi merletti”, un
testo conosciutissimo che a me piace sin
da quando ero bambino, perché mi affascinava questa storia così
particolare, questa galleria di
personaggi squisitamente ironici, stranissimi che Kesserling è
riuscito ad inventare.
Spero di essere riuscito a dare la giusta lettura a questo testo, che tra
l’altro è di difficile
realizzazione, perché ha dei ritmi e dei tempi di notevole difficoltà: con
14 personaggi e tanti colpi
di scena. Come al solito lo spettacolo ha comportato un grosso lavoro come
preparazione, ricerca
dei personaggi, caratterizzazione di questo “branco di matti”. Inoltre
l’anno scorso abbiamo creato
uno spazio scenico molto suggestivo al Vecchio Mulino, per la nuova messa in
scena della
“Casa di Bernarda Alba”; qualcuno mi ha detto “In quel momento non ero
a teatro, ma ero nella
casa di Bernarda Alba”. Continueremo anche quest’anno, faremo qualcosa
di più leggero.
Certo, non è che ci siano molti testi adatti ad essere ambientati là, però
anche cose più leggere
possono esservi rappresentate, magari senza lo stesso spessore e la stessa
atmosfera.
Il
nostro tempo e spazio è terminato, grazie per questa passeggiata nella
storia locale.
Il teatro, vissuto come passione, non smette di affascinare.
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