Racconti fatti intorno al fuoco, parole dette a
mezzavoce nelle
conversazioni dei grandi, quando io ero bambina e avevo la paura
di chiedere al mio papà e alla mamma, perché il tono con cui
parlavano non permetteva domande.
Sono passati anni da allora; per motivi di lavoro e di
studio, una
mia amica mi ha fatto vedere una serie di documenti riguardanti
la Resistenza a Castel Ritaldi. Leggendo le carte, il ricordo si è
ravvivato, ed è iniziato così un percorso che mi sta portando
dentro ad esperienze molto significative.
Comincerò da Francesco Spitella, un ex vice comandante
partigiano
che ha agito sulle montagne che dominano Spoleto, la sua città,
da un lato e la Valnerina dall’altro.
Il suo gruppo, composto da 6 "ribelli",
denominato II° Gruppo,
Terza squadra, Campanello d’allarme per la Somma del nucleo
Monte Fionchi, era il più piccolo di quelli collegati alla Banda Melis,
che nell’autunno del 43 fece da raccordo nello Spoletino tra i gruppi
di partigiani che si trovavano sparsi sui monti. In particolare, la terza
squadra comandata da Spitella aveva il compito di collegare la
Banda Melis con la nascente Brigata Gramsci di Terni.
Entrambe dovevano approntare il piano per arrestare la ritirata
tedesca sulla Somma, posizione strategica, ed evitare che le
forze nemiche giungessero a Spoleto.
Spitella racconta che dopo il 25 luglio a Spoleto
cominciarono le
prime riunioni clandestine per organizzare la lotta antifascista; lui
partecipava a quelle che si tenevano nella casa della ragazza che
sarebbe divenuta sua moglie, o a quelle che si svolgevano a casa
di Santarelli.
L’evasione del 26 novembre "43 dalla Rocca di
Spoleto è una delle
azioni che Francesco Spitella, "Franco" per gli amici, racconta
con
particolare fierezza, perché riuscì ad organizzare, con pochissimi
mezzi e con un controllo serrato dei militi, un’operazione veramente
difficile che ebbe un esito esaltante.
Il primo obiettivo che si pose era quello di venire
trasferito nella zona
3° A, dove l’evasione sarebbe potuta avvenire dalla soffitta,
l’informazione gli era stata fornita da un certo Barboni che conosceva
bene il carcere.
Preparare l’evasione fu difficile anche perché
dovette conquistarsi la
complicità dei reclusi delinquenti comuni, alcuni dei quali affezionati
al carcere facevano servizio di vigilanza meglio delle guardie.
Franco
se li fece amici dicendo di avere nascosto un deposito di fedi d’oro di
gerarchi fascisti. Una scarpa legata allo spago,
(spago avuto dal
calzolaio del carcere Restani), lanciata a cavallo della trave del
soffitto,
fece passare la fila di 28 lenzuola unite con nodo piano bagnato
nella
gavetta. Inizia la scalata verso la libertà.
Intanto il detenuto Federico Torroni, maresciallo dei
carabinieri, si
intratteneva con le guardie a giocare alle carte e ai dadi. In soffitta
fu provvidenziale la lanternina fatta di carta, mollica di pane masticata,
una bottiglietta di brillantina e un filo di lana come stoppino.
Dalla bocca di lupo sopra il tetto vengono lanciate le lenzuola lungo il
cantone dell’ala sud della Rocca e della torre centrale, rivolta verso
Monteluco.
Durante la discesa la luna usciva a tratti dalle
nuvole, era una sera di
"tramontana nera" , l’ombra dondolante si proiettava sulle
pietre della
Rocca. La discesa dei fuggitivi non fu per tutti tranquilla: Claudio De
Angelis
cadde battendo violentemente la testa, ma, Franco raccolse della calce
spenta che si trovava nelle vicinanze e tamponò la ferita. Una bella e
resistente pianta di rosmarino permise la discesa del muraglione del
carcere. Anche la coperta che ognuno aveva legata a sé e che poi
venne legata alle altre e messa a terra, permise di attraversare lo
stradone
vicino alle guardie senza far sentire il rumore dei passi sulla
ghiaia.
L’antico ed imponente Ponte delle Torri fu l’ultimo
tratto di strada prima
di riconquistare la libertà. Da uno scoglio sporgente, Franco lancia un
fischio alla "pecorara". Franco, prima di iniziare l’evasione,
andando a
salutare il Torroni, gli aveva detto che quella sera si sarebbe sentito o
il fischio o il mitra.
Del racconto che Franco mi ha fatto della sua
esperienza nella Resistenza
ho voluto cogliere e raccogliere i tratti, che, all’interno della
barbarie della
guerra, fanno intravvedere la possibilità di andare oltre. Non esiste
guerra
giusta, né può esisterne una necessaria. Nelle parole di Franco ho
sentito
che l’unico motivo che lo spingeva alla lotta era la speranza che non ci
fosse
più bisogno di lottare in modo cruento.
Al termine del nostro primo incontro ho ringraziato
Franco per la sua
disponibilità; lui mi ha risposto: "Per me raccontare e far
conoscere la
Resistenza è un piacere, per lei che è insegnante, è un dovere".