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Il treno per la Germania
L’internamento e il lavoro forzato durante la repubblica
di Salò
Ricordi di Sigifrido Mantini
TRA LE TRAGEDIE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE E DEL
NAZIFASCISMO, FORSE UNA
DELLE MENO NOTE È QUELLA DELLA DEPORTAZIONE DI TANTI GIOVANI, SOPRATTUTTO
RENITENTI ALLA LEVA REPUBBLICHINA, UTILIZZATI COME LAVORATORI FORZATI
DALLE
AZIENDE TEDESCHE. SIGIFRIDO MANTINI DI GUALDO CATTANEO, NEL
RICOSTRUIRE LA
GIOVINEZZA DEL SINDACALISTA E ORGANIZZATORE GIOVANNI ROSATI (SU CUI,
SUL N. 3
DI RISONANZE, ABBIAMO PUBBLICATO IL RICORDO DI PIERPAOLO MARIANI),
RIEVOCA
I MOMENTI DELL’ARRESTO E DEL TERRIBILE VIAGGIO.
Giovanni [Rosati] era del 1924, ed io del 1923: io ero
minatore e non fui chiamato a fare il servizio militare; ma
Giovanni dovette partire nel 1943 e lo mandarono al nord, mio fratello lo
mandarono invece a Molfetta.
L’otto settembre capitò quello che capitò; dopo qualche giorno fummo
licenziati dalle miniere; Giovanni era
tornato, mentre mio fratello fu fatto prigioniero dagli inglesi. Così ci
dissero di presentarci ai tedeschi per
l’arruolamento, ma non ci andò nessuno di noi. Cominciarono ad arrivare
cartoline, firmate dal famoso Armando
Rocchi, ma noi non ci presentavamo.
Las morsa si stringeva sempre più. Era il 19 aprile 1944:
andai nell’aia, presi un crino di fieno, e quando tornai
giù trovai Giovanni a casa mia che mi disse: "Stanno venendo giù un
gruppo di fascisti!". Io li avevo visti passare,
avevano arrestato un certo Decio forse perché aveva frequentato i
partigiani; ma nel tempo che giunsi alla stalla,
posai il fieno e tornai sull’aia a riempire un altro crino di fieno, mi
sento chiamare da mio padre. Vado e vedo una
squadra di fascisti: potevo anche scappare, ce l’avrei fatta, ma ormai
avevano preso mio padre, avevo altri fratelli,
così andai giù. C’era un sergente maggiore, che mi ha ordinato:
"Vai a casa, prendi il cappello e vieni qui".
Mi vennero dietro, circondarono la casa e Giovanni lo presero dentro casa
mia.
Ci portarono a piedi a Gualdo Cattaneo, noi davanti e loro
dietro; e il comandante del presidio ci stava aspettando;
senza dire niente, ci ha fatto entrare in caserma e ci ha messo in camera di
sicurezza. Poco dopo è venuto un
carabiniere, ha cominciato ad interrogarci, dicendo: "Anch’io sto qui
per forza, ma al momento giusto…" Ma io
non gli ho mai risposto. Dopo una mezz’ora sono arrivati mio padre e il
padre di Giovanni; allora ci hanno fatto
uscire dalla camera di sicurezza e ci hanno portato nella mensa per farci
incontrare con loro, poi ci hanno riportato
in camera di sicurezza.
La mattina seguente ci hanno messo sul pulmann e ci hanno
portato a Perugia. Siamo arrivati alle carceri, e uno ha
chiesto: "Sergente, chi sono questi signori?". "Questi sono
miei clienti". Ci hanno messo dentro una cella dove ce
n’erano già altri cinque; c’era un ragazzo alto, con i capelli diritti:
noi portavamo qualcosa da mangiare, e quello
ci guardava, ci guardava, e alla fine ci ha detto: "Datemi un
pezzettino, che sono tre giorni che non mangio niente".
Allora ho spezzato la fila di pane, quella da un chilo e mezzo, e gliene ho
data una metà.
Poi ci hanno tolto i lacci delle scarpe, la cintura, tutto.
Due giorni dopo mi vengono a prendere e mi portano in un
ufficio, dove c’era un sottotenente che ci interrogava: "Perché non
vi siete presentati? Guardate che vi fucilano!".
Io dicevo che stavo lontano dal paese, che nessuno mi aveva avvertito; il
sottotenente poi scrisse: "semianalfabeta,
sa a malapena leggere e scrivere".
Eravamo verso il 21 o 22 aprile. Ci giunse l’avviso per il
processo, mi pare per il 31 maggio: ma quella mattina
non si presenta nessuno. Finché il 2 giugno ci dicono: "Allora oggi
uscite". Ci ridanno i soldi, i lacci delle scarpe,
tutte le cose nostre. Avevamo i capelli lunghi, la barba lunga: quando
arrivammo ci dicevano: "Ecco i banditi!".
Allora ci hanno fatto la barba e i capelli, ci hanno rivestito, e aspettammo
altri due giorni.
Arrivò un ordine: bisognava andare al Liceo Ginnasio, in
sette o otto. Gli altri ci hanno salutato: "Beati voi, che
andate a studiare!". Al Liceo c’erano i Tedeschi: ci salutavano,
sembravano cordiali, ma come tentavamo di
mettere il naso fuori della porta erano guai. Giovanni si mise a piangere:
"Poveri noi, dove siamo capitati!
Ci hanno consegnato ai Tedeschi!". Però ci trattavano bene, ci davano
molto da mangiare.
La mattina del 5 giugno, un Tedesco mi dice: "Roma
kaput!". "Come kaput?". "Si, sono arrivati gli
Americani!".
Una sera verso mezzanotte, arriva un camion, si mette girato
verso la porta, quattro Tedeschi per parte, ci
buttavano su come gli agnelli. Siamo usciti da Perugia, il camion si
riempiva sempre più; c’erano molti tedeschi che
scappavano, e noi ci facevamo coraggio, speravano nell’arrivo degli
alleati, ma niente: siamo arrivati a Sesto
Fiorentino alle sette della mattina; ci hanno fatto scendere, ci hanno
visitato, hanno controllato i pidocchi e le
piattole, ci hanno portato alla Piazza d’Armi ed hanno cominciato a
leggere il giuramento della repubblica di Salò.
La prima volta, al grido: "Lo giurate voi?" nessuno ha risposto;
lo hanno ripetuto, ma anche la seconda volta tutti
zitti.
Lì abbiamo dormito una notte, poi ci hanno portato alla
stazione, hanno messo una mitragliatrice per parte sul treno,
e hanno fatto salire quaranta per ogni vagone. Poi siamo aumentati sempre di
più; la gente ci portava marmellata,
fiaschi di vino, paste, un sacco di roba; uno ci disse: "Ragazzi,
mangiate e bevete, al momento opportuno fare il
vostro dovere". Noi neanche lo sapevamo qual era il nostro dovere.
Ci dissero che ci portavano a Verona, ma il treno si fermava
a tutte le stazioni perché bombardavano, il viaggio non
finiva mai. Eravamo diventati più di mille, e Giovanni era sempre con me.
Siamo arrivati a Verona e ci hanno portato
in caserma.
Una mattina ci hanno portato alla stazione, scortati da
Tedeschi e da Italiani, per andare in Germania. Arrivammo in
Austria, a Innsbruck: tutte le donne ci salutavano dai campi.
Arrivammo ad un paesino vicino ad Amburgo: per ogni vagone c’era
un interprete pronto, ad aspettarci: sembrava
che tutti parlassero italiano. La mattina dopo, all’adunata, ci cominciano
a fare istruzione in lingua tedesca: eins
zwei…; uno che veniva dall’Emilia disse: "Ma che volete da noi?
Noi siamo tutta gente presa sulle montagne,
perciò con noi non realizzerete mai niente". Da quel momento fummo
consegnati, ci dettero un vestito da lavoro,
l’elmetto, la maschera antigas, e poi via, sul treno: e via, su e giù, su
e giù, arrivammo a Varsavia.
Ci aspettavano con il mitra, schierati sulle due parti del
treno; ci hanno portato in un campo d’aviazione, con delle
baracche. Un maggiore ci fa l’adunata, parlava l’italiano: "Vi devo
dire subito che non sono contento della vostra
riunione: chi è arrivato alle otto, chi alle otto e cinque, chi alle otto e
dieci; ma quando io dico alle otto, devono
essere le otto. Io capisco " disse proprio così "che qui voi non
ci state volentieri, però nemmeno a me, quando ero
a Milano, mi piaceva il risotto alla milanese, ma oggi lo mangerei due volte
al giorno. Perciò cercate di adeguarvi".
E poi ci portano a lavorare: c’erano tutte piantagioni di piselli; e noi
invece di lavorare andavamo a rubare i piselli.
Per fare un po’ di fuoco, spaccavamo le finestre e le porte per cucinare.
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