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Intervista a Riccardo Fano’
Riccardo Fanò, studente di Scienze
Politiche, è stato in Medio Oriente durante le vacanze di
Pasqua, dal 27 marzo al 4 aprile, in occasione della "Festa della
terra del sole", proprio nei
giorni in cui si è verificata l’occupazione israeliana alla Natività.
Esprimendo ammirazione
per la coraggiosa scelta da parte di una persona così giovane, chiediamo
innanzitutto i motivi
di questo viaggio così impegnativo e l’organizzazione che lo ha
realizzato.
L’organizzazione del viaggio è di
"Action for peace" (Azione per la pace), un’associazione di
pacifisti , di cui fanno parte sia Israeliani che Palestinesi e che ha
collegamenti con diversi
movimenti in Europa e nel mondo. In Italia è diretta da Luisa Morgantini
e vi fanno capo varie
iniziative pacifiste. In questa circostanza si sono mobilitati molti
gruppi da vari paesi europei:
Francesi, Belgi, Tedeschi, Greci, e circa duecento Italiani. Io ho
partecipato come membro del
Centro Sociale perugino "La skoletta". L’idea era di un
collegamento più costante, che invece,
a causa delle numerose emergenze in cui ci siamo trovati, si è reso
possibile solo per una grande
manifestazione dell’ultimo giorno, nella parte ovest di Gerusalemme, con
le " Donne in nero".
Peraltro, proprio in questa circostanza, una ragazza palestinese di sedici
anni si è fatta saltare in
aria poco distante, così che ci siamo improvvisamente trovati nel bel
mezzo dei soccorsi ai feriti e
del panico generale. Lo scopo del viaggio era di conoscenza ed
informazione: volevamo verificare
direttamente la condizione di apartheid del popolo palestinese e
portare un messaggio di
solidarietà, consapevoli soprattutto del fatto che intorno alla questione
c’è molta disinformazione,
e che è necessario, a nostro parere informare delle reali condizioni.
Appena sbarcati all’aeroporto di Atene, però, il programma è cambiato
in relazione all’emergenza
creatasi nel frattempo per due eventi di grave entità: l’esclusione di
Arafat dal vertice del Libano e
l’attentato kamikaze, creando una ulteriore militarizzazione nei
territori a cui era diretto il nostro
viaggio. A questo punto le finalità cambiavano perché si rendevano
necessari interventi di aiuto di
ogni genere.
Facci capire, in concreto, quali iniziative
potevate realizzare e dove esattamente siete stati
accolti.
Noi eravamo alloggiati a Gerusalemme est,
nella parte araba della città vecchia, ed avevamo
previsto di poter visitare la striscia di Gaza, la Cisgiordania, per
conoscere i luoghi e gli aspetti di
questa festa "della terra del sole ", che ricorda il primo
insediamento israeliano in Palestina.
Abbiamo invece fatto appena in tempo a visitare Betlemme, un giorno prima
che entrassero i carri
armati. A gruppi, per vie traverse e sentieri di campagna, siamo potuti
entrare a Ramallah e
raggiungere l’ospedale, dove ci sono stati rastrellamenti ed esecuzioni
sommarie.
Abbiamo visto sparare sulle ambulanze, prendere per strada un vecchio e
picchiarlo, spogliarlo e
giustiziarlo dietro un angolo. Una signora anziana, che usciva zoppicando
dall’ospedale, è stata
colpita dai militari e lasciata morire dissanguata. Qui siamo riusciti a
dare un contributo per tentare
di far passare due camion pieni di rifornimenti e medicinali,
indispensabili a Ramallah che da una
settimana era sotto il coprifuoco. Ci sono stati anche in questa occasione
interventi pesanti della
polizia israeliana, che gettava lacrimogeni ed abbiamo visto un ragazzo
perdere una mano.
Non sappiamo se poi i camion sono riusciti a passare. Abbiamo visitato il
campo profughi di
Desha, che risale al ’47 e ha oggi 17000 profughi palestinesi che vivono
in condizioni di fame e
povertà assoluta, non hanno acqua, elettricità, le case sono ammassate e
molto essenziali: ci
abbiamo trascorso una notte mentre tutto intorno si dispiegavano i carri
armati e si bombardava il
campo limitrofo di Benjallah. Abbiamo dovuto occupare il centro delle
stanze, non avvicinarci
mai alle finestre e tenere il passaporto sempre a portata di mano, per
qualsiasi emergenza.
Quello che ti resta di più forte e
indelebile, è l’odore dei quella miseria, che ti fa capire anche la
disperazione rispetto a qualsiasi possibilità di soluzione. A Betlemme c’eravamo
sabato trenta
marzo, ne siamo usciti il trentuno e il primo aprile era già invasa di
carri armati. L’impressione è
stata di una città fantasma: case serrate, negozi chiusi, nessuno in
strada, e poi i segni degli
interventi militari pregressi.
Riccardo ha fatto molte foto e mi mostra
palazzi sventrati, alberghi resi inagibili, case senza
vetri alle finestre, costruzioni abbattute dai bulldozer, carri armati che
hanno sfondato
abitazioni.
Arrivati con dei pullman (questo è stato
un altro momento di contatto con tutte le componenti
dell’organizzazione europea), abbiamo percorso in corteo la città
scandendo i nostri slogan di
pace ed abbiamo visto progressivamente animarsi la scena intorno alla
manifestazione.
Qui ci ha molto colpito la volontà di testimonianza che esprimeva la
popolazione, soprattutto i
giovani, addirittura i bambini, che raccontavano episodi incresciosi
accaduti durante gli interventi
militari, con una consapevolezza ed un senso dell’appartenenza quasi
adulto, la voglia di far
conoscere al mondo e condividere la loro condizione di precarietà, ma
anche quasi un’abitudine
al pericolo davvero impressionante. Aprivano i negozi e ci offrivano i
felafel, ci raccontavano i
quotidiani divieti a svolgere una vita normale, e in poco tempo è stato
organizzato una specie di
festeggiamento nella piazza principale, con tanto di discorso del sindaco
che sottolineava
l’importanza di iniziative come la nostra, attraverso le quali, aldilà
della macro-politica e delle
posizioni dei governi, si esprimono il pensiero e la volontà delle
popolazioni, della società civile.
Betlemme è costellata di foto sui muri di
coloro che gli abitanti chiamano i propri martiri : sono i
caduti della resistenza palestinese che è fatta da gente di tutte le
età, ma soprattutto ragazzi che,
con armi fatiscenti, si scagliano contro i carri armati, si nascondono
sulle colline, un po’ come
dei partigiani. Questo davvero ti fa riflettere rispetto all’idea di
terrorismo che da noi accomuna,
in genere, i kamikaze autori di stragi, e questi ragazzi che, spinti della
disperazione di un futuro
negato, difendono le loro famiglie, le loro case come possono: una realtà
molto diversa dal quella
che può prospettare la astratta e generica definizione mediatica
consueta. Certo ci siamo resi conto
di come sia cambiata negli ultimi decenni la lotta palestinese,
poiché si percepisce molto forte
anche la componente religiosa dell’integralismo nelle sue varie fazioni,
che spinge a gesti
inammissibili sfruttando la mancanza di prospettive di vita per i giovani,
la disperazione e
l’isolamento. Intorno alle organizzazioni estremistiche che realizzano
gli attentati ci sono
ricchissimi sceicchi che comprano letteralmente i giovani destinati al
suicidio, e gli interessi di
grandi banche internazionali.
Vorrei chiederti se, in questa esperienza,
in qualche misura hai avuto modo di capire fino a
che punto ciò che accade qui sia dovuto ad un’ impossibilità di
incontro fra due culture,
quella araba e quella ebraica, o se invece sia frutto di molteplici
circostanze storico-politiche
che si sono prodotte nel tempo, e sia, in definitiva, dovuto alle scelte
dei governi. Insomma ,
mi sembra che, se la pace può significare anche crogiolo e interazione di
tradizioni, idee,
modelli di vita diversi, come crediamo, questo dovrebbe riscontrarsi
talvolta nell’incontro tra
Palestinesi ed Israeliani, che, laddove è possibile, stabiliscono tra
loro anche rapporti di
solidarietà umana e collaborazione in diverse circostanze del vivere
quotidiano.
Questa esperienza, limitata a d alcuni
giorni, sebbene così decisivi nella vicenda, ci ha rivelato
condizioni molto difficili di convivenza tra i due popoli. Come vedi dalle
foto, che ritraggono
gli effetti dell’espansionismo di Sharon, nell’insediamento di Gilo,
in cima ad una collina di valore
storico e simbolico per la popolazione di Betlemme e Gerusalemme, sono
state costruite in soli 5
anni ville di esclusivo uso israeliano, con piscina, giardini e vari
confort che usufruiscono dell’80%
delle risorse idriche della zona, ed hanno un sistema fognario unico
in tutto il territorio circostante,
e che svettano su territori arabi poverissimi senza fogne, acqua,
né il minimo per la sopravvivenza.
La stessa cosa accade a Hebron, dove l’insediamento israeliano è
riservato a 400 persone di
media e alta borghesia, in mezzo a un territorio palestinese poverissimo.
Allo stesso modo puoi
facilmente imbatterti in strade e negozi riservati ai soli israeliani,
come in un regime di vero e
proprio apartheid, senza contare i frequenti check-point, i
posti di blocco militarizzati, che
quotidianamente fermano persone che si recano al lavoro, a scuola, in
ospedale, provocando ad
alcuni la perdita del lavoro, l’impossibilità di curarsi, bloccando
insomma qualsiasi attività comune,
quando non vi si consumano altri spargimenti di sangue. Una simile
convivenza acuisce spesso i
dissidi, fomenta negli uni il senso di privilegio e negli altri l’esasperazione,
senza contare che
impedisce qualsiasi possibilità di crescita anche economica alla società
palestinese.
Noi abbiamo fatto numerose manifestazioni davanti ai posti di blocco.
Esistono, tuttavia, in Israele
movimenti come il "Refusnik", militari che depongono le armi
rifiutandosi di calpestare i diritti di
un altro popolo, naturalmente molto represso, come quello delle
"Donne in nero", che protestano
ogni giovedì in piazza per le vittime israeliane di questo conflitto, ed
anche organizzazioni pacifiste,
come "Peace now" che ha partecipato alla nostra
iniziativa.
La società israeliana è molto militarizzata, e questo appare non
soltanto nella massiccia presenza
dell’esercito, ma anche, per chi si trova ad attraversare in pullman
soprattutto le città di confine,
nella frequente visione, ad esempio, di un padre a passeggio col figlio in
carrozzina che imbraccia
con estrema disinvoltura un M16.
Quando siamo arrivati all’aeroporto di Tel Aviv, erano le tre di notte,
ci hanno ritirato per dieci
ore i passaporti e fatto attendere fino a mezzogiorno senza che si potesse
avere una spiegazione.
Ci hanno perquisito da capo a piedi, hanno aperto tutti i bagagli, e
quando siamo ripartiti ci
siamo imbattuti, nello stesso aeroporto, in Agnoletto e la sua
organizzazione a cui venivano
aperte e rese inservibili le medicine che portavano per i soccorsi. Invece
in città, a Tel Aviv,
il clima è quello della metropoli americana, il ritmo di vita è
vertiginoso e indifferente, e sembra
che nessuno si preoccupi di ciò che accade a poche centinaia di
chilometri.
Letture consigliate:
Giovanni Codovini, Storia del conflitto
arabo-israelo-palestinese, Bruno Mondatori
Xavier Baron, I Palestinesi. Genesi di
una nazione, Baldini & Castoldi
Benny Morris, Vittime, Rizzoli ed.
Anton La Guardia, Terra Santa Guerra
Promessa, Fazi editore
Voci dal conflitto. Israeliani e
Palestinesi a confronto, Ediesse
Edward W. Said, La questione palestinese,
Gamberetti ed.
Aine Cavallini, Diario di una giovane
palestinese, Ed. Clandestine
Rania Hammad, Palestina nel cuore,
Sinnos ed.
In rete:
Tra il gran numero di siti dedicati alla
Palestina e all’occupazione israeliana, oltre al sito ufficiale
dell’Anp (Autorità nazionale palestinese), www.pna.org (in
inglese),
si consiglia il sito www.palestinaonline.it a cura dei Volontari
italiani per lo sviluppo,
con la piattaforma delle o.n.g. italiane per la Palestina.
Si consigliano i numerosi siti giornalistici indipendenti che dedicano
spazio al tema,
come www.contropiani2000.org, www.immaginifuorigioco.supereva.it,
www.indymedia.it/palestina. Interessante, soprattutto per il gran
numero di collegamenti
ad altri siti, è tmcrew.org/int/palestina. Si possono vedere anche
riviste di informazione
telematica come "arcipelago" in www.arcipelago.org,
"controinformazione" in
http://shunk.3000.it, "il clandestino" in www.che2000.supereva.it.
Naturalmente molto attenti alla realtà palestinese e alle iniziative in
Italia sono i siti dei movimenti:
si segnala ad esempio www.ecn.org/palestina. Tra i siti di
movimenti pacifisti israeliani
ricordiamo www.yesh-gvul.org (in inglese), del movimento Yesh Gvul
(C’è un limite!),
che sostiene i refusnik, riservisti obiettori di coscienza; dai
gruppi ebrei pacifisti americani
possiamo vedere www.nimn.org, del movimento Not in my name
("non a mio nome"),
o il californiano www.jewishvoiceforpeace.org ("la voce degli
Ebrei per la pace").
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