SOMMARIO 

L’esempio argentino                                      


Intervista a Oscar Daniel Tarnoski e Victoria Lombroni

OSCAR E VICTORIA VIVONO IN UMBRIA DA OTTO MESI, SU UNA COLLINA PRESSO CIVITELLA
D’ARNA. VENGONO DALL’ARGENTINA, DOVE OSCAR ERA AVVOCATO E VICTORIA BIOLOGA:
ORA LUI È FALEGNAME, LEI DECORATRICE DI MOBILI (MESTIERI RECUPERATI DALLE TRADIZIONI
FAMILIARI). MA DICONO CHE, A CONFRONTO CON L’INSTABILITÀ DEL LORO PAESE, QUI SI
SENTONO IN PARADISO.

In Argentina, dopo la fine del governo militare, c’era un’inflazione fino al 5000%: il tasso di sconto era del 35%, e le banche
praticavano interessi anche del doppio; nessuna industria, nessuna attività economica lo poteva sopportare. La gente poteva
 pensare solo all’indispensabile: mangiare, sopravvivere. Dieci anni fa, alle elezioni vinse il partito peronista, un partito basdato
sulla guida di un forte caudillo: prima fu Peron, ora Menem. Tutti i suoi ministri economici appartenevano a imprese
multinazionali; quando divenne ministro Cavallo, per uscire dalla crisi si basò sulla teoria della convertibilità fissa tra la moneta
forte, il dollaro, e una moneta debole, il peso argentino: si cambiò la moneta. In Argentina, cambiare moneta è una cosa normale,
usuale, non come qui dove c’è l’euroconvertitore: da un giorno all’altro si cambia moneta, e non c’è nessun "effetto psicologico";
la gente ha una grande capacità di adattarsi e di sopravvivere in tutte le situazioni. La convertibilità creò una follia di spendere
denaro: si compravano macchine, case, arredamenti, si facevano le vacanze all’estero, perché un peso valeva un dollaro.
Ma per poter fare questo, l’Argentina ha dovuto chiedere soldi al Fondo monetario internazionale (Fmi), in cambio di tutte le
 imprese pubbliche, come trasporti, ferrovie, navigazione, linee aeree, le autostrade, e poi sono stati venduti i pozzi di petrolio a
imprese degli Stati uniti o della Spagna; tutta la materia prima, i minerali, e poi il grano, tutto è stato venduto. In Argentina,
nessuno paga le tasse, nessuno: e lo Stato, per mantenersi, si indebita con il Fmi; e il Fmi, in cambio del denaro, si prende le imprese
pubbliche o le terre. La crisi argentina è come una febbre: uno prende l’antibiotico, lì per lì si sente bene, ma il male resta.
Con il governo Menem, per i primi anni la gente stava bene, era euforica; ci fu stabilità: l’inflazione scese al due, uno per cento.
I prezzi scendevano. Ma dal ’97-98, tutta la situazione economica cominciò a crollare, perché il Fmi esigeva il pagamento del debito:
finora, l’Argentina aveva pagato solo gli interessi, non il capitale. Così l’Argentina ha chiesto un prestito alla Spagna per pagare
il debito, e il debito aumentava sempre più. Oggi in Argentina, anche chi ha il lavoro, può non ricevere il salario, oppure viene pagato
con un "buono": in questo momento c’è una doppia circolazione, il peso argentino che è la moneta ufficiale, e i "bonos" che sono
stati emessi da ciascuna Provincia (Stato). E in questo momento, per la gente comune il problema è sopravvivere. L’occupazione
non esiste, la sanità pubblica non esiste, le medicine costano troppo per la maggior parte delle persone: la gente muore per mancanza
di cure. E la gente oggi muore di fame. Senza lavoro, senza soldi, l’unica conseguenza è di andare a rapinare: in Argentina oggi ci
sono ragazzi di otto, nove anni che portano la pistola e uccidono, per rubare le scarpe, un poco di cibo. Oggi è impossibile uscire per
strada in macchina: ti rapinano. Ti uccidono per un dollaro. Molta gente fa lavori sporchi per sopravvivere. La corruzione domina tutto.
 Per noi, lasciare l’Argentina è stata una liberazione, perché io lavoravo e non mi pagavano; Victoria veniva pagata a dicembre per il
 lavoro fatto a marzo, se glielo pagavano. La gente può solo protestare, fare manifestazioni: chiede soluzioni ai politici, ma questi non
hanno soluzioni. Tanti Argentini stanno cercando di lasciare l’Argentina, le ambasciate sono sopraffatte dalle richieste di passaporti.
La gente svende tutto quello che ha per la speranza di vivere in un altro Paese. Noi lo abbiamo fatto per nostra figlia Caterina, per darle
 un futuro. Certo, è duro per me: ho lasciato il mio Paese, la mia famiglia, la mia lingua, il mio lavoro di avvocato; ma ora mi sento felice
di fare il falegname, che mi dà da vivere onestamente e mi dà soddisfazione nel vedere il risultato del mio lavoro, nel vedere che so
 mettere a frutto quello che ho imparato nel laboratorio di falegname di mio padre.